Usa 2020, non solo presidenziali, anche Senato in ballo

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Dalle elezioni di medio termine del 2018 il Partito Repubblicano controlla il Senato con cinquantatré seggi su cento. Il Partito democratico controlla i restanti quarantasette seggi, anche se i senatori democratici sono quarantacinque. Questo perché i due senatori indipendenti, Bernie Sanders e Angus King, si schierano sempre con i democratici. Ne consegue che a novembre, i democratici per riconquistare il Senato devono guadagnare almeno quattro seggi, oppure tre più la vicepresidenza, perché quest’ultima ha diritto di voto in caso di parità. I repubblicani, per conservare il controllo del Senato, non devono perdere più di due seggi che salgono a tre nel caso in cui Mike Pence sarà confermato vicepresidente. Il commento di Lucio Martino su Formiche.

Presidenziali Usa, c'e' anche da rinnovare 1/3 del Senato

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"Sanità, istruzione e lotta alle armi. Salverò il Paese da Trump"

Non c'è dubbio che Joe Biden si stia rivolgendo a noi europei, quando puntando il dito denuncia con forza: «Trump ha demolito le nostre alleanze, io mi impegno a ricostruirle».
È il pomeriggio dopo la resurrezione del Super Tuesday. Biden partecipa ad un evento per la raccolta di fondi elettorali con il sindaco di Los Angeles Garcetti, e poi riunisce un gruppo di giornalisti all'hotel «W» di Hilgard Avenue per indicare come pensa di battere Sanders e Trump: «Sono grato per il sostegno ricevuto in tutto il Paese. Quelli che nella vita sono caduti, sono stati dati per finiti, sanno che questa è la loro campagna». Così spiega la filosofia della sua candidatura: «Vogliamo riunificare gli americani, al di là di razza, sesso, disabilità, etnia, e il risultato di martedì dimostra che ci stiamo riuscendo. Ci rivolgiamo a tutti, democratici, indipendenti e repubblicani. Lo dico sul serio, perché questo è il modo in cui si vince, ed è la ragione per cui mi sono candidato». Subito dopo lancia una frecciata al rivale Sanders: «Noi stiamo costruendo un movimento, composto da persone che non sognano la rivoluzione, ma vogliono battere Trump e costruire il futuro migliore che sappiamo essere possibile per l'America».
L'exploit del Super Tuesday
I flussi elettorali di martedì hanno ribaltato il tavolo: «Questa idea che non siamo un movimento... Andate a guardare i risultati, chi è andato a votare. Noi ora stiamo guidando la campagna, portando alle urne persone che non partecipavano. L'affluenza è stata altissima. Significa che la nostra agenda positiva, progressista, ma realizzabile, è maggioritaria nel Paese: garantire che l'assistenza sanitaria sia abbordabile e accessibile per tutti; che ogni bambino riceva l'istruzione per avere successo; battere i produttori di armi per la sicurezza; assicurare che il sistema pensionistico della social security sopravviva e protegga i coniugi rimasti vedovi; riformare l'immigrazione; affrontare la minaccia esistenziale del riscaldamento globale, avviando un processo di trasformazione con cui possiamo creare 10 milioni di buoni posti di lavoro che pagano 45 o 50 dollari all'ora più i benefit».
La continuità
Biden sottolinea la continuità con Obama: «Sono orgoglioso di aver servito come suo vice otto anni, e di ciò che abbiamo realizzato, come la riforma sanitaria, il salvataggio dell'industria dell'auto e dell'economia nazionale. La gente dimentica che quando siamo andati alla Casa Bianca gli Usa erano sull'orlo del fallimento, e in guerra su diversi fronti. Avevamo appena cominciato a cambiare le cose, ricostruire la classe media, risolvere i cambiamenti climatici: dobbiamo completare l'opera». Per riuscirci, è necessario centrare tre obiettivi politici: «La Casa Bianca non basta. Affinché la nostra visione diventi realtà, dobbiamo confermare Pelosi come Speaker della Camera e riprendere il Senato». Perciò manda un messaggio Sanders: «Non dobbiamo permettere che nelle prossime settimane le primarie diventino una campagna di attacchi negativi, perché aiuterebbe solo Trump. Dobbiamo tenere l'occhio sulla palla. L'obiettivo è sconfiggere Donald per salvare l'anima del Paese». Biden ci crede: «La gente capisce. Trump rappresenta una minaccia esistenziale per il ruolo degli Usa nel mondo. Ha già compromesso la nostra reputazione, con la sua strategia elettorale di diffondere odio e divisione tra gli americani. Il mondo intero lo ha visto insultare i nostri alleati, e abbracciare demagoghi e dittatori. Ha indebolito tutte le alleanze, su cui avevamo costruito la nostra forza, ma io mi impegno a ricostruirle. Se diamo a questa persona altri quattro anni alla Casa Bianca, cambierà radicalmente il carattere della nostra nazione. Non possiamo permetterlo. Perciò fin dal principio ho detto che questa è una battaglia per salvare l'anima del Paese».
Prima, però, bisogna vincere le primarie: «Stiamo già lavorando sul voto di martedì prossimo in Michigan, Mississippi, Missouri, Idaho, Washington, North Dakota. Porteremo la lotta in tutta l'America per unirci, ricostruire la classe media e dare alla gente un'opportunità che è stata negata da Trump. Il prossimo presidente deve avere la capacità di guidare dall'istante del giuramento, per curare una nazione divisa e un mondo nel caos. Io so come farlo e ho spiegato con chiarezza gli obiettivi. Possiamo guidare il 21° secolo come non abbiamo mai fatto prima, se capiamo che sulla scheda c'è il carattere della nostra nazione, prima che il nome dei candidati». Una collega gli fa notare che Sanders lo accusa di essere uno strumento dell'establishment. Allora Biden si ferma, torna indietro, e risponde con fermezza: «L'establishment sono i milioni di lavoratori che mi hanno votato. Io corro per loro, per realizzare i nostri sogni». 

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Ma Trump si puo' fermare

Come diceva Mark Twain è molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro, ma io ne azzardo una. Donald Trump vincerà le elezioni di novembre a meno che il partito democratico non nomini l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg.

Perché? Cominciamo dai motivi per cui Trump ha ottime possibilità di essere rieletto. Tradizionalmente il presidente uscente è avvantaggiato soprattutto quando l’economia va bene, cioè crescita alta e disoccupazione bassa. In questo senso l’economia favorisce Trump, anche deflazionando le mirabolanti descrizioni del presidente secondo cui gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una specie di Nirvana. Gli Usa non hanno avuto una recessione per 11 anni, ma di questi 11 solo tre erano con un Trump presidente. Il tasso di crescita durante la presidenza di Trump è intorno al 2,5 per cento ed è simile a quello degli ultimi anni di Obama e al di sotto di quel 3 per cento che è considerato un po’ il punto che divide crescita alta e modesta per gli Stati Uniti e che è più o meno la media della storia recente americana. Non solo, ma questi tassi di crescita sono per ora relativamente deludenti dato il forte stimolo fiscale di Trump. Siamo ben lontani dal fenomenale 6 per cento che prometteva. 

La disoccupazione è ai minimi storici al 3,6 per cento, ma già aveva un trend discendente ed era intorno al 5 per cento quando Trump è salito al governo. I salari stanno finalmente risalendo un poco, circa lo 0,4 per cento sopra l’inflazione. Il mercato azionario è esploso.

Gli aspetti meno positivi dell’economia americana sono di più lungo periodo e meno evidenti per l’elettore medio. A prescindere dalle politiche (anti)ambientali di Trump (per esempio una recente controriforma del sistema di protezione delle acque dolci del Paese) rimane il debito pubblico che continua ad aumentare. Il taglio delle imposte sulle imprese ha un senso perché erano relativamente alte. Ma a questo taglio Trump avrebbe dovuto far seguire un aumento della progressività del sistema fiscale sulle famiglie, riducendo il peso sulle classi medie chiudendo i mille canali con cui i super ricchi riescono a pagare relativamente poche tasse; oltre ad un segnale di giustizia ciò avrebbe anche stimolato di più i consumi. 

Dal lato della spesa Trump ha fatto ben poco. Il programma di assistenza medica pubblica gratuita per tutti gli anziani ricchi e poveri (Medicare) è una bomba ad orologeria per il bilancio. Nulla è stato fatto. Invece Trump sta attaccando Medicaid il programma di assistenza medica gratuita per i meno abbienti che è un problema fiscale molto inferiore. Perché? Ovvio, gli anziani votano Trump, soprattutto in alcuni stati cruciali come la Florida, i molto poveri no, i quali, anzi spesso non votano del tutto. 

C’è poi l’aumento della ineguaglianza negli Stati Uniti. Nel 1980 l’uno per cento più ricco deteneva il 10 per cento del reddito totale, oggi il doppio, circa il 20 per cento. La metà più povera deteneva sempre nel 1980 il 21 per cento del reddito totale, oggi circa il 13. È straordinario che in un Paese con un tale andamento della disuguaglianza una buona parte degli elettori continuino a favorire il partito repubblicano e che in un anno elettorale Trump stia addirittura promettendo tagli al welfare americano. I motivi sono due: uno di natura culturale/storica, l’altro contingente alle politiche attuali dei due partiti e dei candidati democratici. 

La prima ragione è che gli americani al contrario degli europei sono molto più propensi ad accettare la disuguaglianza come una necessità ed entro certi limiti la ritengono «giusta». Secondo la World Value Survey (un sondaggio d’ opinione molto prestigioso) più del 70 per cento circa degli americani ritiene che i poveri non sarebbero tali se si impegnassero di più ad uscire dalla povertà, e queste possibilità di mobilità sociale ci sono. Il numero di europei che ha queste opinioni è poco piu della metà (il 40 per cento). L’idea del «sogno americano» su cui questo Paese si è formato storicamente rimane saldamente nel cuore di molti americani anche più di quanto la realtà lo confermi oggi. Ovviamente Trump non fa che battere su questo punto, auto elogiandosi per la rinascita del «sogno». L’altra ragione deriva dalle strategie dei due partiti, vincenti quelle dei repubblicani disastrose quelle dei democratici. Il partito repubblicano ha abbracciato il culto della personalità per Trump, il quale si vendica senza pietà di chi non è d’accordo con lui. Anche l’ala del partito cosiddetta del «nord est», cioè l’ala della élite urbana, esalta un presidente che la protegge dalle temute redistribuzioni fiscali. Lo accetta anche a costo della sua mancanza di rispetto per le basi del costituzionalismo americano che sta creando precedenti assai pericolosi per la democrazia americana. 

Il partito democratico è allo sbando. Le primarie sono iniziate con una dozzina di candidati di cui una buona parte sono sconosciuti che non fanno che creare confusione. Il disastro organizzativo dell’Iowa è stato imbarazzante. Tra i veri contendenti ci sono due estremisti (per gli standard americani) Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Il primo si dichiara apertamente socialista (un «non starter» per gli Stati Uniti) ed è un ideologo stile Corbyn che con toni esaltati ed esagerati promette di tutto senza spiegare come finanziare le sue straordinarie promesse. Trump tifa apertamente per lui perché sa che se lo mangerebbe in un boccone se vincesse le primarie democratiche. La Warren ci dice invece come pagare per le sue promesse: forti tasse sulla ricchezza, e tasse sui redditi alti (ma non altissimi) fino al 75 per cento. Un programma perfettamente accettabile in Francia, ma che non la porterebbe da nessuna parte negli Usa, e infatti sta andando malissimo. (Non a caso i suoi consiglieri economici sono due professori francesi della università di Berkeley, ottimi economisti ma con poco senso della politica americana). Il candidato dei moderati doveva essere Joe Biden, ma appare sempre meno energico, (Trump lo chiama con qualche ragione «Biden il lento»). Sembra privo di idee e «vecchio» non solo nel senso anagrafico del termine ma nel senso di «vecchio establishment»; ha perso nettamente le prime gare in Iowa e New Hampshire. Buttigieg è un fuoco di paglia: dopo aver ottenuto qualche migliaio di voti in quei due piccoli Stati parla come se fosse un nuovo Obama non dicendo nulla di concreto a parte, vaghe, noiose e ripetitive promesse di «cambiamento». Prima si ritira e smette di dividere il voto moderato meglio è per lui e per il suo partito. È invece apparsa sulla scena una ottima senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar che io vedrei con molto piacere come presidente ma probabilmente non ce la farebbe da sola contro Trump. Rimane allora la meteora Bloomberg che ha scelto una strategia innovativa: ignorare le primarie iniziali dei piccoli Stati e concentrarsi su quelle dei grandi che arriveranno fra qualche settimana, facendo uso della sua ricchezza senza fondo che lo rende libero dai finanziatori. Ce la farà a vincere la nomination? Difficile da prevedere, ma le cose si cominceranno a chiarire fra meno di un mese con il super Tuesday con primarie in molti Stati grandi. Se Biden si ritirasse prima del super Tuesday dopo qualche altra delusione nelle primarie, (Nevada e South Carolina) e trasferisse i suoi voti a Bloomberg, e se quest’ultimo, Bloomberg, scegliesse relativamente presto la Klobuchar, come vicepresidente, (che è di origini umili e bilancerebbe il profilo del super ricco newyorkese) vincerebbero le primarie. 

Stravincerebbero se la Warren, quando si ritirerà, decidesse di trasferire i suoi voti a Bloomberg, dato che è vicina alle posizioni politiche di Sanders ma personalmente non lo sopporta. Tutto ciò richiederebbe nel partito democratico un minimo di coordinamento che invece non esiste. Forse una parola di Obama in questa direzione sarebbe molto utile anche per sanare i contrasti tra gli afroamericani e Bloomberg createsi quando era sindaco di New York. Insomma, credo che un ticket Bloomberg e Klochubar sia l’unico che potrebbe battere Trump e Pence.

Alberto Alesina - Corriere della Sera - 15 febbrao 2020

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