La strada in salita

E Brexit sia. Il lungo equivoco iniziato il 23 giugno 2016 è finito il 12 dicembre 2019: la Gran Bretagna uscirà dall’unione Europea. Accadrà alla fine di gennaio: così ha promesso Boris Johnson, uscito trionfante dalle elezioni politiche, e così avverrà. Dispiace, come sempre quando gli amici se ne vanno. Ma, a questo punto, è opportuno. L’autostima britannica, e la pazienza europea, non potevano sopportare ulteriori incertezze.

Le elezioni politiche 2019 hanno rappresentato, di fatto, il «secondo referendum» invocato da la maggioranza degli elettori del Regno Unito ha confermato di voler lasciare l’unione Europea, chiudendo una relazione durata 47 anni. Fu un primo ministro conservatore, Edward Heath, a celebrare il matrimonio; è un primo ministro conservatore, Boris Johnson, a sancire il divorzio. Entrambi hanno nascosto la verità ai propri concittadini: il primo disse che l’adesione alla Comunità economica europea non comportava una cessione di sovranità; il secondo nega che la Gran Bretagna abbia tratto benefici dall’Europa. Una relazione non facile finisce qui.

Ma, come tutte le relazioni, anche quella tra Regno Unito e Unione Europea non si potrà sciogliere facilmente: ci sono questioni familiari, legali e patrimoniali da sistemare. Queste ultime, per quanto ostiche, sono le più abbordabili: Londra dovrà rimborsare quanto deve, e negoziare nuovi accordi commerciali (certo non basterà un anno, e dovrà chiedere una proroga). Le questioni familiari — le vicende interne del Regno Unito — sono meno appariscenti, ma più delicate. Che ne sarà delle quattro nazioni che oggi convivono sulle isole britanniche? Inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi del nord riusciranno a restare insieme?

In Inghilterra, come sappiamo, gli elettori hanno scelto in massa il partito conservatore, che di Brexit aveva fatto una bandiera (anche distretti industriali e minerari sono passati ai tories, alcuni dopo un secolo). Lo stesso è accaduto in Galles, dove i laburisti hanno ceduto otto seggi agli avversari. Dalla Scozia e dall’Irlanda, invece, arrivano a Londra notizie preoccupanti.

In Irlanda del Nord/ulster, per la prima volta, i nazionalisti avranno più seggi degli unionisti. Il risultato è storico, ma non inatteso. Boris Johnson ha infatti sacrificato Belfast durante il negoziato con Bruxelles, accettando che la regione rimanga dentro l’unione doganale europea, come il resto dell’isola. Il confine, dopo la Brexit, passerà nel mare d’Irlanda: lì avverranno i controlli. Il Democratic Unionist Party (Dup) non è riuscito a impedire questa concessione, sebbene il governo di Theresa May e il primo governo di Boris Johnson si reggessero sui suoi voti. Ora è del tutto impotente. La politica, la diplomazia, la geografia, la demografia, l’economia (l’ulster costa!): tutto sembra spingere l’Irlanda del Nord fuori dal Regno Unito.

Ma è la Scozia, oggi, la nazione più scontenta e irrequieta, in rotta di collisione costituzionale con Londra. In Scozia i conservatori hanno pagato la scelta di Brexit, perdendo 7 seggi. I nazionalisti ne hanno guadagnati 13, e ora sono a quota 48 (su 59). Lo Scottish National Party ha ottenuto una vittoria prevedibile nella sostanza, ma imprevista nelle dimensioni. I suoi elettori, guidati dalla battagliera Nicola Sturgeon, non vogliono lasciare l’unione europea, che tanto ha contribuito allo sviluppo della regione. Temono, non a torto, un Regno Unito ancora più «londrocentrico» di quanto sia stato finora. La parola d’ordine, in Scozia, è diventata “indyref2”:  gli scozzesi chiederanno un secondo referendum sull’indipendenza, dopo quello (perso) nel 2014. Il primo ministro Boris Johnson, forte della nuova maggioranza (80 seggi), non intende concederlo: lo ha già detto. All’orizzonte, appare lo spettro della Catalogna. Certo: Edimburgo e Glasgow sono diverse da Barcellona, ma le passioni sono simili. E gli scozzesi dispongono di un argomento formidabile, che i catalani non avevano: l’Inghilterra ha voluto lasciare l’Unione Europea, le condizioni per restare nel Regno Unito sono cambiate e bisogna prenderne atto.

L’esito dello scontro è imprevedibile. Ma si fatica a capire come una Scozia europeista e un’Inghilterra egocentrica possano vivere insieme. Certo: il governo di Londra, per ammorbidire gli scozzesi, potrebbe ricoprirli di aiuti e investimenti. Ma, prima, deve trovare i soldi. Tanti soldi. Non sarà facile, senza il mercato europeo.

Beppe Severgnini – Corriere della Sera – 14 dicembre 2019

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  • Pubblicato in Esteri

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