L’Unione che (non) fa la forza

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Era un colpo d’ala poderoso: la Banca centrale europea da mercoledì sera è di nuovo in campo con tutta la sua potenza, come mai prima. Sotto la bandiera del Primum Vivere di fronte al virus e alle sue conseguenze. Lo slancio è stato però annichilito, almeno per il momento, dai governi dell’Europa, i quali nel video-summit di ieri sera, non sono riusciti a trovare una risposta all’altezza della situazione, divisi, mediocri, compromissori. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio del Paese più colpito dalla pandemia, non ha prima accettato le conclusioni della bozza preparata dal summit e ha minacciato di sbattere la porta. Poi, il compromesso che chiede ai ministri delle Finanze di trovare un accordo entro 15 giorni. Nel vertice, Conte è stato appoggiato da qualche leader, in particolare dallo spagnolo Pedro Sánchez. Però, il dato di fatto è che la crisi è drammatica ma la solidarietà tra Paesi rischiosamente tenue. In realtà, ai governi era stata preparata una base di intervento straordinaria. I protagonisti della politica monetaria erano scesi in campo con la presidente attuale della Bce, Christine Lagarde, e con l’ex presidente, Mario Draghi, quasi si fossero coordinati. Il loro intervento nella serata di mercoledì — separato — aveva l’effetto di una bomba: nell’emergenza, mette nel cassetto i pilastri che per decenni hanno sostenuto sia il modo di condurre la politica monetaria sia i parametri cardine dell’area euro. In sostanza, dà ai governi e all’Europa lo spazio per preparare pacchetti economici di intervento di grande portata. I leader politici non sono stati in grado, almeno per ora, di cogliere l’opportunità. La decisione della Bce, pubblicata mercoledì sera, firmata da Lagarde, è di fatto un cambiamento di paradigma nel modo di fare banca centrale vecchio di quattro decenni. Elimina una limitazione che costringeva la Bce a comprare, nel suo programma di intervento di titoli sui mercati, non più di un terzo di un’emissione. Significa che con gli oltre mille miliardi che nelle settimane scorse la banca ha mobilitato, tutti da usare quest’anno, potrà acquistare titoli di un Paese con pochi limiti. E in gran parte questi miliardi saranno usati in modo «flessibile», cioè prima là dove serve. Gran potenza di fuoco da usare in modo creativo. Per l’Italia si tratta di almeno 140/160 miliardi con i quali la Bce acquisterà titoli, per lo più dello Stato. La svolta sta nel fatto che, in questo modo, la banca centrale nella sostanza sostiene la politica di bilancio dei governi e implicitamente accantona la regola che è stata a lungo un totem, cioè la separazione tra politica fiscale e politica monetaria, tra Tesoro e banca centrale. Questo susciterà opposizioni. I governatori di Germania e Olanda si erano già detti contrari all’abolizione del vincolo del 33%. Ci saranno probabilmente ricorsi. E qui entra in campo l’articolo che Draghi ha scritto per il Financial Times, pubblicato sempre mercoledì sera. Il predecessore di Lagarde parte dal presupposto che siamo di fronte a una «tragedia umana potenzialmente di proporzioni bibliche», affrontando la quale i governi si dovranno indebitare, come successe durante le guerre, per evitare che nell’economia si creino «danni irreversibili». A situazione eccezionale, risposta eccezionale, fuori dai canoni di pace. Le regole sui deficit e sui debiti degli Stati vanno dunque accantonate. È la sistemazione politica che accompagna le decisioni radicali della Bce. Ed è la spinta più autorevole arrivata ai governi europei perché agiscano con altrettanto senso del pericolo e dell’urgenza. Ieri, i leader della Ue sono invece stati timidi. Hanno ribadito di volere fare tutto ciò che servirà ma hanno rinviato l’ipotesi di mettere in comune gli sforzi e i relativi debiti per fronteggiare la crisi. E questo ha spiazzato Conte, il quale ha anche divisioni da considerare a Roma. È che in Europa le complicazioni politiche sono ancora oggi più forti della necessità di trovare una strategia comune. Una serie di Paesi del Nord, Olanda in testa, continuano a non volere creare debito condiviso con altri che ritengono non del tutto affidabili. Quindi si lascia ancora una volta tutto sulle spalle della Bce. Per la Ue, il passaggio è di delicatezza e di portata formidabili: si tratta di scelte politiche e di una trasformazione istituzionale mai affrontate. Conte chiede di testarle in dieci giorni. Poco tempo. Ma i tempi, come ha scritto Draghi, sono eccezionali, occorre esserne all’altezza.

Danilo Taino – Corriere della Sera – 27 marzo 2020

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L'epidemia uccide la politica

L'epidemia di Covid-19 ha inaugurato un nuovo capitolo della relazione tra tecnica e politica. E apre una potenziale nuova prospettiva tecnocratica. Ne erano immagini esemplari ieri prima il question time alla Camera, e poi l'informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte in un'aula a ranghi ridottissimi, svuotata per ragioni sanitarie e dai Dpcm. Icone (in alcuni casi, con la mascherina) della tardiva parlamentarizzazione di un'emergenza virale che coincide con una crisi politica. Non una crisi di governo, perché le catastrofi di origine esogena rafforzano gli esecutivi, come confermano anche le difficoltà di ricavarsi un ruolo (come sarebbe auspicabile) in questo frangente drammatico da parte di una destra che, a forza di proporsi con le «ricette» populiste, pare capace di gestire più delle emergenze presunte che quelle reali. Ma una vera e propria crisi della politica, «uccisa» dal coronavirus, e che si mostra indifesa di fronte all'imprevisto, come se potesse oramai occuparsi esclusivamente dell'ordinaria amministrazione. Ed eccola, quindi, cedere il passo, nuovamente, alla tecnica. Non più ai professori e agli esperti di economia (che sta terribilmente soffrendo), ma a quelli di virologia, infettivologia e scienze biologiche, con il Comitato tecnico-scientifico insediato dal premier che, attraverso le misure di contenimento del contagio, stabilisce l'agenda pubblica di questi tempi dolorosi.
A volgere indietro lo sguardo, si trova una sorta di precedente illustre. Quello dell'igienismo – espressione del positivismo e pagina gloriosa del tentativo di modernizzazione della nazione – che annoverò un paio di generazioni di medici, clinici e accademici (spesso con incarichi politici, da Agostino Bertani a Luigi Pagliani, da Paolo Mantegazza ad Angelo Celli). Erano gli esponenti del cosiddetto «partito igienista», assai diviso al proprio interno tra scuole e visioni (come capita ora ai telespettatori di vedere nei loro eredi divenuti protagonisti importanti dei talk show), tutti però animati dal «sacro fuoco» (come si diceva all'epoca) di migliorare le pietose condizioni igienico-sanitarie del «Paese reale» dell'Ottocento. Nell'Italia del dopo Unità gli igienisti svolsero una funzione centrale nell'elaborare il concetto di salute pubblica e le istituzioni per governarla, e rappresentarono uno dei pilastri ideologico-scientifici dello statalismo liberale, intrattenendo relazioni non semplici con una classe politica che aveva il controllo assoluto della vita collettiva.
Oggi, nell'età della crisi di legittimità della politica e del trionfo della biopolitica, sotto vari profili il rapporto si è rovesciato, con la classe politica che attribuisce di fatto la responsabilità al comitato di esperti, il quale persegue il proprio obiettivo in maniera totale, secondo la logica propria della tecnica. Nel delegare alla scienza la politica compie un'operazione ambivalente: lodevole, poiché per questa lotta durissima servono le competenze appropriate ma, al medesimo tempo, dà una volta di più l'impressione di non volersi assumere quel «principio-responsabilità» che è quanto il cittadino richiede alla classe dirigente. In una democrazia liberale, spetta ovviamente alla politica il compito di definire e salvaguardare gli spazi di indipendenza dalle decisioni assunte dai tecnici della medicina degli altri sottosistemi sociali (in primis, l'economia e i confini tra interesse pubblico e libertà personali, come evidenziavano su queste colonne Mario Deaglio e Vladimiro Zagrebelsky). Ma, essendo debole la politica, si generano cortocircuiti e incertezze, e viene esasperato il mancato coordinamento tra lo Stato e le autonomie territoriali. Finendo così per amplificare ulteriormente le ansie di un'opinione pubblica già impaurita e sottoposta a uno stato d'eccezione, che deve, per l'appunto, apparire come straordinario e non pronto a protrarsi più a lungo del necessario.

La Stampa – 26 marzo 2020

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Da destra a sinistra tutti evocano Draghi per guidare l’Italia finita l’emergenza

Ieri sera, dopo l’audizione del ministro Gualtieri in Parlamento, fonti autorevoli del Pd spiegavano che le ipotesi filtrate dall’economia — e che pronosticano un crollo del Pil per il 2020 tra il 5 e il 7% — fossero da ritenersi «ottimistiche»: «Bisognerà prepararsi a una manovra choc, che non si potrà fare senza un patto nazionale». È ormai evidente che nei prossimi mesi l’italia si ritroverà — per usare le parole di Mattarella — nelle stesse condizioni in cui si trovò al termine della Seconda guerra mondiale: perciò — ha detto il capo dello Stato — serve «la stessa unità di allora». «E allora — ha chiosato uno dei maggiori esponenti grillini — tutti i partiti parteciparono al governo di ricostruzione...». Ecco il punto, che è oggetto di discussioni riservate nelle forze di maggioranza: per quanto tempo ancora si potrà chiedere all’opposizione di aderire al principio di «unità nazionale», senza immaginare una loro partecipazione al governo? È una domanda che Di Maio si è posto durante una riunione del Movimento e che per certi versi ha trovato risposta indiretta nella dichiarazione di Franceschini. Se è vero, come ha sostenuto il ministro della Cultura, che «oggi è in campo la Nazionale», allora tutti devono giocare. Il problema sarà da risolvere per tempo, entro l’estate, appena superata l’emergenza sanitaria. Nel Pd già si confrontano linee diverse, e ieri Bettini — per difendere Conte — ha tentato di proporre come soluzione «un tavolo permanente» tra partiti di maggioranza e opposizione. Ma a lungo andare il processo di osmosi politica prefigurerebbe comunque uno scenario che dall’«unità nazionale» porterebbe al «governo di unità nazionale». Non ci sono altre opzioni, persino la strada (teorica) del voto è sbarrata: tra il referendum per il taglio dei parlamentari, l’obbligo di adeguare i collegi e la necessità di varare una nuova legge elettorale, si arriverebbe di fatto al «semestre bianco» della presidenza della Repubblica, quando sarebbe impossibile sciogliere le Camere. Difficilmente il quadro politico potrebbe reggere così, fino al 2022, in piena emergenza. Ché poi è la tesi dell’altro pezzo del Pd, molto simile all’analisi formulata giorni fa dal leghista Giorgetti: «Il sistema finanziario mondiale era in bolla già prima della pandemia. E il Covid-19 ha fatto esplodere la bolla. Ora, per fronteggiare la crisi, il debito italiano salirà fino al 140-160% di rapporto con il Pil. E dovremo trattare con i mercati e con l’Europa per non affondare. Con tutto il rispetto, mi chiedo: è possibile che questo governo possa affrontare la più grave crisi del dopoguerra? Conoscete la mia risposta». E si conosce anche il nome. Lo stesso che evoca Salvini quando propone «il meglio alla guida del Paese in questa fase delicata». Quello che per primo spese Renzi quando ancora era in piedi il governo giallo-verde. È Draghi che citano esponenti di rilievo del Pd, appena ricordano come il loro sia «il partito della responsabilità nazionale». Su Draghi a Palazzo Chigi «non sbaglio se penso che Berlusconi, e insieme a lui Gianni Letta, sarebbero favorevolissimi», dice Casini, che pure conosce le perplessità dell’ex presidente della Bce: «Ma se si venisse chiamati a servire la Patria in certi frangenti, sarebbe difficile sottrarsi». E il «richiamo alla Patria», non lascia insensibili nemmeno importanti dirigenti di FDI, certi che la Meloni «saprebbe cosa fare» semmai si arrivasse a un simile epilogo. Certo, ci sarebbe da sciogliere il nodo della formula politica di un governo che sarebbe chiamato a gestire la crisi economica, mentre al Parlamento toccherebbe riformare le regole. Ma intanto vanno costruite le condizioni per favorire il disegno, e non dev’essere un caso se ieri il capogruppo del Pd Delrio ha voluto alimentare «il dialogo con le opposizioni, che deve andare avanti». Al cospetto di chi lo invoca, Draghi ha il profilo giusto e nessuna controindicazione politica: finito il suo mandato non sarebbe un competitor dei partiti, perché — come dice un rappresentante dem — «la sua destinazione sarebbe il Quirinale». Il segnale Franceschini e l’ipotesi di coinvolgere il centrodestra: oggi è in campo la Nazionale. Lo scenario Giorgetti: è possibile che questo governo affronti la più grave crisi del dopoguerra?

Francesco Verderami – Corriere della Sera- 25 marzo 2020

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