Il Mediterraneo può contare su 200 nuove specie di pesci

Le “BIOINVASIONI MARINE” sono un fenomeno secolare, tuttavia negli ultimi decenni le attività umane ne hanno notevolmente accelerato il ritmo. Come altre questioni ambientali la loro crescita spaziale e temporale è stata oggetto di osservazione, specialmente in aree come il Mar Mediterraneo, ricco di specie e di endemismi  che  sta subendo un declino climatico della biodiversità autoctona  ed una continua invasione di specie esotiche. Tra il 1896 e il 2020, un totale di 188 specie ittiche sono entrate nel Mar Mediterraneo, principalmente dal Canale di Suez, ma anche da altri vettori mediati dall'uomo e dallo Stretto di Gibilterra. I dati  riportati in 264 mappe di distribuzione, hanno documentato questo fenomeno, in forte aumento dopo il 1990, senza alcun segno di saturazione. Le introduzioni più recenti hanno raggiunto le espansioni geografiche più veloci e spettacolari. La ricerca, anche pubblicata sulla rivista “Global Change Biology”, coordinata dall’Istituto per le risorse biologiche e biotecnologie marine del Cnr di Ancona, ricostruisce il percorso delle invasioni del mare nostrum che hanno cambiato la storia del biota mediterraneo. La via d'ingresso più importante è ed è stato il Canale di Suez. Dalla sua apertura, nel 1869, molte specie del Mar Rosso sono entrate nel Mediterraneo attraverso questa via artificiale. Oggi, questi "immigrati lessepsiani", chiamati cosi dal nome di Ferdinand Marie de Lesseps, l’ingegnere francese che progettò e realizzò il canale, rappresentano più di cento specie di pesci. Altre specie sono entrate attraverso  la navigazione e il commercio di acquari. Infine, lo Stretto di Gibilterra consente l'ingresso della fauna ittica atlantica nel Mediterraneo. L'analisi dei dati ha evidenziato alcuni modelli temporali e geografici, come ad esempio l'effetto e l'eventuale indebolimento delle barriere bio geografiche rappresentate dallo Stretto di Sicilia e dal Mar Egeo. A prescindere dalla loro origine, una conoscenza della dinamica spazio-temporale dell'invasione di questi tre gruppi di specie, è utile per valutare la rapida e irreversibile trasformazione dell'ittiofauna mediterranea, che alcuni autori hanno chiamato “demediterraneizzazione” e altri tropicalizzazione. Negli ultimi decenni i due processi hanno mostrato una rapida accelerazione  dovuta all'aumento dei volumi di scambio e  alle acque mediterranee più calde e salate. Sono state  analizzate 188 specie di pesci e 4015 osservazioni “georeferenziate” che vanno dal primo record di “Pampus argenteus” nel 1896 all'ultimo caso registrato di “Cheilodipterus novemstriatus” nell'agosto 2020. Fino agli anni '90 la distribuzione del pesce lessepiano era per lo più confinata ai settori più orientali del Mediterraneo. In particolare, prima del 1990, solo due specie dal Mar Rosso avevano raggiunto il Mediterraneo occidentale, rispettivamente l'Italia (Pomadasys stridens nel 1968) e la Tunisia (Siganus luridus nel 1969). Dopo il 1990, la loro espansione geografica è stata massiccia sia in termini di numero che di nuove aree occupate, con diverse specie che hanno esteso il loro areale al  Mediterraneo occidentale e settentrionale e al Mare Adriatico orientale. La specie atlantica si è mossa nella direzione opposta, mentre le specie introdotte dalle altre attività umane, come il trasporto marittimo, l'acquacoltura/maricoltura e il rilascio di acquari, hanno mostrato registrazioni isolate e sparse, prive di una chiara direzione geografica o di un'apparente diffusione.  Come spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim e coordinatore della ricerca: “Abbiamo sfruttato una nuova, ampia raccolta di occorrenze georeferenziate che sono state recentemente estratte dalla letteratura mediterranea attraverso il database ORMEF. Il set di dati, che consiste in 4015 osservazioni georeferenziate di 188 specie di pesci nuove nel Mar Mediterraneo offre un'opportunità inestimabile per esplorare un'invasione secolare attraverso lo spazio e il tempo in modo coerente su un'intera regione marina”. “Ma quali sono gli effetti ambientali e socio-economici di queste migrazioni ittiche? “Alcune di queste specie costituiscono nuove risorse per la pesca, ben adattate a climi tropicali e già utilizzate nei settori più orientali del Mediterraneo”, spiega il ricercatore Cnr-Irbim. “Allo stesso tempo, molti ‘invasori’ provocano il deterioramento degli habitat naturali, riducendo drasticamente la biodiversità locale ed entrando in competizione con specie native, endemiche e più vulnerabili. Il ritmo della colonizzazione è così rapido da aver già cambiato l’identità faunistica del nostro mare; pertanto ricostruire la storia del fenomeno permette di capire meglio la trasformazione in atto e fornisce un esempio emblematico di globalizzazione biotica negli ambienti marini dell’intero pianeta”. I crescenti tassi di introduzione, osservati per tutti e tre i gruppi, sono da ascrivere anche  alla maggiore efficacia delle vie e dei vettori prevalenti. Il Canale di Suez è diventato più permeabile dopo il completamento della diga di Assuan nel 1964, la diluizione dei laghi amari e l'ampliamento della sua area trasversale, con il recente scavo di un secondo canale. Al contrario, il numero crescente di specie atlantiche è stato attribuito da alcuni autori a cambiamenti nei modelli di circolazione dell'acqua e/o a condizioni ambientali più idonee a Gibilterra. Il forte aumento del numero di avvistamenti di tutti e tre i gruppi di specie negli anni '90 dimostra una capacità di osservazione notevolmente aumentata negli ultimi decenni. Questa scoperta rispecchia l'espansione generale della ricerca sulle specie aliene, anch'essa notevolmente cresciuta negli anni '90 e il recente aumento delle notazioni dei cittadini che hanno fornito un ampio quantità di nuovi record nella letteratura mediterranea. Tale maggiore capacità di osservazione è particolarmente utile per l'individuazione di specie rare o non stabilite come nel caso dei pesci trasportati dalle navi, rilasciati dagli acquari e/o introdotti tramite altre attività mediate dall'uomo.

Patrizia Lazzarin, 3 settembre 2022

 

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Il mito degli alleati

  • Pubblicato in Esteri

 

      La recente conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera conferma, se mai ve ne fosse bisogno, il perdurare di un patetico mito e dei suoi inconfutabili complementi: una sorta di nevrosi ossessiva – quella del “nemico”, identificato con la Russia, ma non solo – e di un messianico e non richiesto complesso di gendarmeria planetaria, graziosamente definita come “la responsabilità della leadership” da uno degli oratori americani, l’ex-vice presidente Joe Biden.

      Mentre questi elementi sono affiorati in modo per così dire soffice nel discorso di un personaggio per molti versi moderato e autorevole come quest’ultimo, essi sono invece apparsi con ben altra rozzezza in quello dell’inespressivo e sbiadito attuale Vice Presidente americano, Mike Pence, ombra cortigiana di Donald Trump.

     A parte queste differenze di approccio, entrambi hanno fatto largo uso di slogans più appropriati alle anticaglie di un rigattiere che  a una politica estera realistica e lungimirante. Continuare infatti a parlare con disinvoltura di “mondo libero” e di “alleati”, pretendendo, fra le altre cose, che gli Europei spendano di più per le spese militari della Nato, ricorda certi films di propaganda della seconda guerra mondiale e poi della guerra fredda. Le nozioni sono sempre là, con la stessa ripetitività e coazione tipiche delle nevrosi ossessive. Nel nostro caso, la nevrosi è rappresentata dalla proiezione del nemico: prima solo la Russia, poi negli ultimi anni anche l’Iran e ora, per il momento solo sub specie commerciale, la Cina. Molti sembrano dimenticare il ruolo determinante dell’establishment militare-industriale americano in tale incessante rinforzo dell’immagine del nemico. E’ così che, nonostante la fine della seconda guerra mondiale, che aveva partorito una gigantesca macchina bellica, una cospicua parte di quest’ultima è stata mantenuta in piedi con vari pretesti, dalla democrazia da difendere alla vigilanza planetaria e alla lotta contro il comunismo.

In realtà, ognuno di questi pretesti zoppica o è platealmente smentito dai fatti, ponendo così a nudo la faccia tosta e la scarsa lungimiranza delle amministrazioni americane post-belliche, che non vanno necessariamente interpretate come la voce corale di tutta l’America, ma piuttosto di una ristretta èlite, come già aveva osservato molti anni fa Wright Mills. Ma ciò è notorio.

Entrando ora nei dettagli, esigere dagli Europei un atteggiamento duro nei confronti dell’Iran e della Russia e dichiarare decaduto il presidente venezuelano Maduro perché sarebbe poco democratico è  a dir poco esilarante. Certo, il regime iraniano e quello di Maduro non brillano per tolleranza e per libertà politica e religiosa e dovrebbero cambiare o essere rimossi, ma condannare solo costoro equivale ad utilizzare due pesi e due misure e priva l’atteggiamento di Washington di qualsiasi credibilità. Quale sarebbe infatti la differenza fra il detestato Iran e regimi come quello saudita o il Pakistan?

Il primo si distingue per il suo imperterrito feudalesimo di tipo familiare, per le sue feroci carneficine in Yemen, per le sue esecuzioni - ultima quella di Kashoggi in Turchia -  e per torbidi finanziamenti all’Islamismo più intransigente (per una sospetta coincidenza, prima dell’arricchimento petrolifero della penisola Araba non si sentiva parlare di terrorismo islamico).

Il secondo rigurgita di persecutori di cristiani e di punitori di ragazze che hanno infranto la Shariah e, particolare inquietante, è anche una potenza nucleare… Nonostante il fanatismo religioso vi sia moneta corrente, l’Amministrazione americana fa finta di non sapere, di non vedere e soprattutto non sembra preoccuparsi dell’arsenale atomico del Pakistan, mentre invece scaglia fulmini e saette contro le ambizioni atomiche della Corea del Nord. Le rinnovate tensioni con l’India dopo la strage di militari indiani ad opera di un gruppo integralista pakistano a Pulwama, nella parte di Kashmir amministrata dagli Indiani, giustificano le inquietudini riguardo agli armamenti atomici di regimi poco liberali e settari come quello pakistano, anch’esso partner dei Washington. Solo i miopi (caritatevole  eufemismo) possono ignorare questa perversa costante di amicizie con regimi notoriamente illiberali.

      Continuare quindi a parlare di “mondo libero” e di “alleati” assomiglia ai films di propaganda che gli Stati Uniti sfornavano durante la seconda guerra mondiale e immediatamente dopo. Ciò avveniva quando vi era un Hitler da debellare e poi una “cattiva” Unione Sovietica, creatura peraltro sostenuta proprio dagli Stati Uniti durante la guerra, altra rovinosa contraddizione. Solo l’ipocrisia può infatti rimuovere l’idea che esistesse differenza fra le  isterie e le bestialità razziali di Hitler e le selvagge epurazioni di Stalin. Anche qui, gli occhi vennero chiusi con buona pace dei milioni di morti staliniani. Ma oggi Hitler fortunatamente non esiste, la Russia è diventata capitalista e gli oligarchi hanno sostituito i boiardi zaristi e la nomenklatura sovietica. Anzi, miliardari britannico-americani di origine russa come Sir (!) Leonard Blavatnik – nato a Odessa e con laurea a Mosca – offrono bizzarri finanziamenti a senatori e deputati americani dei due partiti.

      L’ossessione anti-russa ha del resto origini antiche, stimolata come fu per secoli dai timori britannici di un’espansione zarista verso il Mediterraneo. Furono quei timori a spingere la Gran Bretagna a proteggere a tutti i costi i Sultani dalle pressioni di Pietroburgo, almeno fino a quando non si scoprì che bisognava invece liberare gli Arabi – vedi il famigerato Colonnello Lawrence – e bastonare così i Turchi. Mirabili capovolgimenti dell’utilitarismo di Stato…

      Sotto certi aspetti, insomma, la paranoia anti-russa attuale s’inserisce in uno scenario che affonda nel passato. Pur credendo che nessuno è al di là di ogni sospetto, Russi inclusi, rimane il fatto che, dopo la caduta del muro di Berlino, la penetrazione russa in Europa occidentale avviene con forniture di gas, invise a Washington, mentre quella americana travestita come “basi Nato” è presente ovunque sub specie militare. Non ci sarebbe quasi bisogno di sottolinearlo, tanto il fatto è lampante, ma le perduranti accuse di annessione della Crimea, vociferate e martellate anche dalla BBC (tacito e larvato governo ombra britannico) sono anch’esse espressione di una notevole impudenza. Le petulanti accuse britanniche riguardo alla supposta annessione della Crimea (di fatto, un credibile referendum) stridono con la pretesa di continuare ad occupare Gibilterra (territorio iberico), le zone di Akrotiri e Dhekelia (a Cipro) o le Falklands (a due minuti dall’Argentina), giusto per fare degli esempi.  

Mai etichette furono insomma più mistificanti di quella di “mondo libero”. Essa è fatta di mezze bugie e di mezze verità e solo il dilagante intorpidimento e il rincretinimento di massa alimentato dai vari Facebook, Twitter e simili, e dai pantani dei faccendieri pubblico-privati ne facilitano l’equivoco.

Un esempio di mondo libero, ironicamente allineato a immemoriali tradizioni, è quello di far sostenere dagli occupati una notevole parte dei costi dell’occupazione … Lo facevano gli antichi Imperi, lo facevano gli Inglesi in India – erano i vari Stati indiani a pagare le spese del personale civile e militare inglese – e continuano a farlo gli Americani dalla Germania all’Italia, alle Filippine e alla Corea del Sud. Non è infatti un mistero per nessuno che ancora oggi siano stazionati 35.000 soldati americani in Germania, 12.000 in Italia, 40.000 a Okinawa e 23.000 nella corea del Sud. Le richieste prima menzionate di una maggiore contribuzione dei membri europei alle spese della Nato (in realtà cordone sanitario statunitense anti-russo) s’inseriscono in questa collaudata tradizione.

Se il mito dell’alleato, e quindi del nemico perdura, due nemici ben più pericolosi non ricevono al contrario l’attenzione che si meriterebbero. Solo l’insipiente arroganza di un Donald Trump può infatti misconoscere l’inquietante mutamento climatico in atto, mentre anche i governi più illuminati stanno trascurando lo spettro dei secoli futuri: l’agghiacciante aumento della popolazione del pianeta in Africa, nel Sub Continente indiano, in Indonesia e in Cina.

"Questi" sono nemici ben più temibil.

Antonello Catani, 1 marzo 2019

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