Stato di assedio

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Assieme ad altre notizie spesso incredibilmente futili ed effimere, le cronache di questi ultimi decenni rigurgitano di atti terroristici di matrice arabo-islamica ben più fatali e drammatici, le cui motivazioni risiedono in un inestricabile e confuso groviglio di zelo religioso e di rivendicazioni politico-nazionalistiche (vedi quelle del defunto Colonnello Gheddafi, del Fronte Popolare di Abu Nidal, dei Talebani in Pakistan e Afganistan, e adesso del sedicente IS). Dall’attacco  di Monaco nel 1972 a quelli agli aereoporti di Fiumicino nel 1973 e nel 1985  e di Vienna sempre nel 1985, al locale berlinese La Belle nel 1986, a Lockerbie nel 1988 e alle Torri Gemelle nel 2001 (quest’ultimo, peraltro, ambiguo e controverso anche negli stessi Stati Uniti) fino a quelli più recenti di Mogadiscio, Sousse, K abul, Baghdad, Bengasi, il nord del Sinai, Parigi, il Cairo, Istanbul, San Bernardino e Giacarta (l’ex- Batavia olandese), giusto per menzionare gli esempi più clamorosi, è un ininterrotto e lugubre susseguirsi di attentati, in genere realizzati grazie al fanatico auto-sacrificio degli autori, spesso giovani e figli di nessuno. E’ significativo che fra questi conclamati “martiri”,  non esista nessun notabile del terrore o figlio di notabile: nessuno di costoro si è mai immolato.  

        Figure simili erano già esistite in passato con analogie e differenze esemplari.

        Al tempo delle Crociate, per esempio, gli emissari dell’ismailita Hasan-i-Sabbah (noto anche come il “Vecchio della Montagna”), i cosiddetti Hashashìn, da cui il moderno “assassini”, partivano dall’inespugnabile fortezza di Alamut, in Persia, per uccidere sia nobili cristiani che califfi, vizir e sultani sunniti. Anch’essi giovani, ciecamente devoti al loro maestro e pronti al suicidio, da cui appunto il loro nome, fedayyìn, lo zelo omicida di costoro appare analogo a quello di tanti terroristici islamici odierni. Un tratto in comune con questi ultimi è che gli Assassini agivano in pieno giorno e sotto gli occhi di tutti.  Le loro vittime, al contrario, non erano casuali ma scelte appositamente. La tecnica della massima pubblicità era in ogni caso identica. Per oltre un secolo essi terrorizzarono tutto il Vicino Oriente, cercando di assassinare lo stesso Saladino, finché non furono sterminati dai Mongoli di Hulagu nel 1258. Da allora, degli Assassini non si udì più parlare.

         Contrariamente alle esaltate rivendicazioni dei moderni integralisti islamici, non risulta che la setta, a parte i suoi orgogli sciiti, avesse un progetto globale e di ripristino di un Islàm purificato. E’ comunque significativo che gli odierni militanti della guerriglia palestinese, i cui obiettivi sono essenzialmente nazionalistici piuttosto che religiosi, si siano dati proprio il nome di fedayyìn (letteralmente, “devoti” e quindi pronti all’estremo sacrificio).

        Più vicino a noi, a cavallo del XX secolo, Europa e America conobbero una serie di assassinii eccellenti, effettuati da anarchici anch’essi votati all’estremo sacrificio. Così come quelli degli Assassini, molti di tali attentati erano ad personam e avvenivano alla luce del giorno e di fronte a tutti. Perirono così personaggi illustri, dal presidente francese Francois Carnot nel 1894, a Elisabetta d’Austria nel 1898 e poi Umberto I e il presidente americano McKinley nel 1901. Ma vi furono anche attentati destinati semplicemente a fare il più possibile numero di vittime, come avvenne con quelli del caffè Terminus, a Parigi, nel 1894, e di Wall Street, nel 1920. A differenza dei seguaci del Vecchio della Montagna e dei terroristi attuali, gli anarchici erano mossi da rivendicazioni sociali e nebulose negazioni dello Stato. Anche in questo caso, gli attentatori erano perlopiù giovanissimi.  A Wall Street le loro imprese fecero peraltro un sinistro salto di qualità: lo strumento di morte non fu più una freccia, una sciabola, una pistola o uno stiletto ma un furgone pieno di dinamite. Nulla distingue tale attentato da quelli odierni. Abolita la necessità dello scontro fisico e una sorta di dialettica personalizzata dell’odio, rimane oggi solo una gelida e indiscriminata meccanica della violenza. Il “chi” importa meno dei “quanti”. Proprio questa indifferenza per il “chi” elimina ogni eventuale anche se delirante giustificazione ideologica di tali atti.

        Per far meglio risaltare la particolare natura del terrorismo arabo-islamico, vale qui la pena di menzionare anche le azioni analoghe delle varie organizzazioni irlandesi, israeliane, basche e francesi d’Algeria del XX secolo. Nessuna di queste ultime era tuttavia fondata e animata da un’ideologia religiosa e quasi tutte, dall’IRA irlandese all’IRGUN israeliano e all’ETA basca, a parte l’OAS, avevano obiettivi essenzialmente irredentistici e di recupero di un’indipendenza nazionale. Altra differenza sostanziale è l’assenza del modello del combattente votato al sacrificio personale, cosa che invece ritroviamo nei kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale, ma non, per esempio, nelle azioni di guerriglia anti-naziste condotte dai cosiddetti “partigiani” in Italia. In esse, il modello del combattente votato al sacrificio di sé stesso era totalmente assente, visto che gli autori agivano nell’ombra e si guardavano bene dall’assumere poi pubblicamente la responsabilità individuale degli attentati. Il risultato assai poco onorevole fu che a pagare di persona sarebbero stati migliaia di civili innocenti ed estranei alle loro imprese.

        In quanto alle operazioni terroristiche dell’OAS in Algeria, di fatto, esse rappresentano un capitolo a parte e paradossalmente al contrario, visto che miravano al mantenimento del dominio francese in quel Paese e non al recupero di un’indipendenza nazionale algerina.

        Ritornando ora agli attentati e massacri arabo-islamici di questi anni, la loro mappa geografica conferma che né l’occidente cristiano né Israele sono l’unico bersaglio o causa. Faide tribali, ataviche dispute territoriali (vedi quelle fra Arabia Saudita e Yemen) e il secolare dissidio interno del mondo islamico fra sunniti e sciiti latenti durante il periodo coloniale, a cui si è ora aggiunto il radicalizzarsi dell’integralismo islamico, sono all’origine degli incessanti attentati in Libia, Iràq, Yemen, Pakistan e Afghanistan, senza dimenticare le migliaia di morti delle lotte intestine in Algeria (non a caso provocate dal Fronte di Salvezza Islamico nei sanguinosi anni ’90). In realtà, il conflitto palestinese fa da comodo paravento propagandistico a manifestazioni settarie e a tensioni le cui radici sono ben più antiche della proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948. I numerosi e ripetuti attentati nel cuore dell’Europa suggeriscono comunque, piaccia o no, la reviviscenza di tendenze aggressive nei confronti di quest’ultima e che parevano essersi definitivamente estinte dopo i falliti assedi ottomani di Malta nel 1565 e di Vienna del 1683. Non è una coincidenza che la penetrazione islamica abbia tradizionalmente trascurato e ignorato i Paesi del Nord Europa, privilegiando quelli del Sud Europa.

        Insomma, esistono singolari analogie, non solo geografiche, fra le aggressioni odierne e quelle dei primi secoli dell’Islàm. Di fatto, l’Occidente o meglio ancora, tutto ciò che non si adegua al Dar al-Islàm (letteralmente, “Il mondo dell’Islàm”) e al suo assolutismo religioso si trova tendenzialmente sotto assedio ed è preso di mira con inesausto fervore. Nessuna mitezza e moderazione, certamente esistenti in seno alle moderne società islamiche in giro per il mondo, possono confutare ed eliminare la presenza di questo alter ego genetico che non ha subito gli ammorbidimenti secolarizzanti (spesso forzati e loro malgrado) dell’occidente cristiano. Il vero demone del mondo islamico non è l’Occidente ormai laico ma il suddetto alter ego.

       Lo scellerato e feroce linciaggio di Farkhunda Malikzada in Afghanistan, le imprese di Boko Haram in Nigeria, le impassibili esecuzioni mediatiche dell’IS, il macello degli studenti pakistani, giusto per fare degli esempi, appaiono come i sintomi di un sottostante e latente fanatismo, le cui attuali esplosioni non possono certo essere ricondotte a oppressioni coloniali, a iniquità e disuguaglianze economiche o a ritorsioni per le eventuali malefatte di servizi segreti o dell’invasione israeliana. Esse sono innanzitutto eruzioni di violenza catalizzate da un miscuglio d’isteria religiosa, ferocia collettiva e selvaggia barbarie. Fenomeni simili non sono stati certo sconosciuti in passato in seno alla stessa civiltà occidentale, anche se adesso essa pretende di dimenticarli. Dalle implacabili persecuzioni dei pagani condotte da Teodosio e dal linciaggio della vergine Ipàzia allo sterminio degli Albigesi, alla caccia alle streghe, ai massacri degli Ugonotti e degli Hussiti, fino ai processi di Salem e poi dopo allo sterminio dei Valdesi e ai ricorrenti pogroms di Ebrei praticati un po’ da tutti, tali ricorrenti esplosioni di brutale e cieca isteria religiosa collimano perfettamente con quelle del fanatismo musulmano di ogni epoca e denominazione.

       Le scuole del “politicamente corretto” e i minuetti di molti storici amanti degli e ufemismi salottieri tendono a minimizzare il fatto che non solo l’espansione islamica nacque con la spada, ma anche la successione dei primi califfi fu cruenta e sanguinosa, come mostrano le morti violente del genero del Profeta, Alì, e dei suoi figli Hasan e Husayn, morti che lasciarono irreparabili e ancora inestinte lacerazioni. Il conflitto fra Sciiti (“i seguaci” di Alì) e i Sunniti continua a provocare morti. Quando poi moderni apologeti dell’Islàm pretendono di tradurne l’essenza come “pace”, essi minimizzano nuovamente il fatto che l’irrevocabile conditio sine qua non di tale pace, che ovviamente può essere tanto di un individuo quanto di un gruppo sociale o di un popolo, è la totale e incondizionale “sottomissione” alla parola di Dio e del Suo Profeta, ma quindi, ai musulmani che se ne ritengono i depositari. Il significato primordiale del verbo áslama, da cui deriva il termine Islàm, è infatti semplicemente “sottomettersi incondizionalmente”. Pace, dunque, solo a queste condizioni. Le erudite e interminabili dissertazioni sulla teologia islamica, trascinate dal loro fervore filologico, trascurano queste origini primordiali e più terra terra. Così, anche l’ulteriore  islamizzazione del nord Africa nell’XI secolo avvenne con l’invasione da cavallette e con i saccheggi della tribù beduina dei Banu Hilal del Nejed, allo stesso modo in cui, sempre nell’XI secolo, la penetrazione islamica nella parte nord-occidentale del sub-continente indiano fu accompagnata dalle violenze e dai saccheggi di innumerevoli templi hindù e buddisti ad opera di Mahmud di Ghazni, un afgano, il quale anticipava in tal modo le non meno fanatiche distruzioni talebane delle venerabili statue buddiste di Bamiyan e quelle dell’IS a Palmira.

         Una delle differenze sostanziali fra Islamismo e Cristianesimo è insomma che il primo si diffuse fin dall’inizio e proseguì la sua penetrazione con l’aggressione, mentre il secondo sviluppò tale atteggiamento solo dopo vari secoli. Paradossalmente, nel suo caso, uno dei più potenti motori della diffusione iniziale sembra essere stato proprio il masochismo strisciante nei confronti delle persecuzioni.

       In realtà, l’elemento cruciale della cultura islamica che la differenzia e pone tendenzialmente in conflitto, con i modelli ormai consolidati del mondo occidentale é il suo DNA genetico, che unifica imperiosamente prescrizioni religiose e norme civiche, escludendo così un esercizio indipendente di queste ultime. La soggezione della dimensione profana a quella religiosa e la tendenza delle caste sacerdotali ad asservire il potere politico erano già ben conosciute anche agli antichi Egiziani e furono inflessibilmente rinverdite nel Medio Evo cristiano (vedi le acerrime lotte fra Papato e Impero). L’attuale regime sostanzialmente teocratico attualmente in vigore in Iràn (non a caso simile a quello dei Magi di antica memoria e che fiorirono negli stessi luoghi) è un significativo esempio di tale soggezione. Pur con tutti i loro limiti, nazionalismo e illuminismo debellarono le pretese più assolutiste e totalitarie del cristianesimo militante, restituendo imprevedibilmente a quest’ultimo un po’ della mitezza evangelica lamentevolmente perduta da Paolo di Tarso in poi.

        La crescente secolarizzazione (forzata o spontanea) del mondo occidentale ha progressivamente estinto e praticamente eliminato le violenze e le sudditanze religiose.

        Il mondo islamico, o meglio, le nazioni a maggioranza islamica, non l’hanno fatto, anche se, pur essendovi in genere totalmente impreparate (a parte rare eccezioni), esse hanno adottato modelli di tipo nazionalistico-parlamentare maturati in Occidente solo dopo secoli di laboriosi adattamenti. Non dobbiamo quindi stupirci, se in molti casi le forzate e tardive introduzioni di democrazia parlamentare – esempi tipici, l’Afganistan, la Libia o l’Iràq – senza dimenticare il disastroso contributo nell’ombra dei servizi segreti di varia bandiera, hanno scatenato ingovernabili tensioni e anarchie che ben poco hanno a che fare con la democrazia. Sul fronte religioso, tuttavia, le società islamiche si sono dimostrate fino ad oggi ostili, se non impervie a qualsiasi forma di secolarizzazione sia pur moderata.   

        Come dire che il vero problema della cultura islamica, a parte quello apparentemente innocuo di aver prodotto arti figurative solo decorative – già il divieto di rappresentare esseri umani la dice lunga sulla sua sensibilità umanistica – è di non aver subito un benefico processo di affrancamento dalla cappa di piombo dei vari mullàh di turno. Non meno fosche erano ovviamente le cappe degli I nquisitori cristiani. Pur affetto da una certa deprecabile arroganza e spavalderia, paradossalmente, fu grazie all’emergere dell’illuminismo ateo e razionalista che la libertà di pensiero religioso potè poi acquistare legittimità nel bagaglio civico dell’Occidente. Quasi non ci sarebbe bisogno di dirlo, ma dovrebbe essere evidente che la perdita di potere di mullàh, inquisitori zelanti e faccendieri ecclesiastici non significa affatto estinzione o ripudio del sentimento religioso, come qualche inguaribile bigotto di ogni fede e denominazione potrebbe obiettare.

       Purtroppo, a confondere le cose, petulanti mass media, compunti storici e romantici di varia natura hanno curiosamente ingigantito ed esasperato non solo il mito di una civiltà greca antica tutta luci e perfezioni ma anche le glorie della “civiltà araba”, oscurandone in entrambi i casi i lati oscuri e meno gloriosi.

       Per quanto riguarda la prima, molti sembrano ignorare che, a parte Platone, Aristotele, Prassitele e il Partenone, nell’Atene classica solo un decimo della popolazione godeva di diritti politici, che negli empori di schiavi come quello di Delo, potevano essere venduti (con buona pace di Apollo che vi deteneva un famoso santuario) fino a diecimila schiavi al giorno, che la famosa flotta ateniese era anch’essa finanziata grazie al terribile lavoro degli schiavi nelle miniere d’argento di Lavrio, senza trascurare lo stato d’inferiorità sociale e psicologica in cui era tenuta la donna. Il velo da essa indossato durante le rare uscite di casa, patologico emblema di misoginia e fallocrazia, era già la regola nell’Atene di Pericle. San Paolo, Romani, Bizantini, Persiani e poi Arabi semplicemente ne consacrarono l’imposizione, cosicché esso continua a essere usato con patetica ostinazione da innumerevoli donne musulmane in giro per il mondo. Nessuna prescrizione coranica ne fa cenno e le sue origini appaiono risalire alle immemoriali gelosie e prevaricazioni del “padre-padrone” genialmente teorizzate da Freud in Totem e tabu. Anche i lati oscuri sopra citati sono insomma parte integrante della cultura classica.

        In quanto al mito arabo-islamico, coltivato dai ricchi viaggiatori europei del gran tour nel XIX secolo e poi da personaggi tipo Saint John Philby e Lawrence, non bisognerebbe mai dimenticare che furono gli innesti greco-persiani ad arricchire quella che in fondo era una rozza cultura tribale dell’Arabia centrale, estranea agli splendori e alle raffinatezze degli antichi regni sud-arabici, di cui il personaggio di Bilkis o Makeda (alias la regina di Saba) costituisce un leggendario riflesso. Di suo, oltre ai dettami del Corano e alle lodi del cammello, l’originaria cultura beduina aveva ben poco da elaborare. Non appare un caso che la civiltà islamica sia sostanzialmente fiorita solo là dove già esisteva un terreno fertile, come appunto accadde nella Spagna moresca, in Persia, nell’Egitto fatimide (col suo sostrato faraonico-greco-bizantino) o nell’India Moghul, tutti luoghi sedi di preesistenti e mature culture. In realtà, nel corso del tempo, la cultura islamica si è sempre più involuta in ostinate tautologie dottrinali che ne spiegano la rigidità, nonché la chiusura e il disinteresse verso il divenire storico e le scienze della natura – da cui le sue debolezze e dipendenze tecnologiche - mentre si sono cristallizzate e sono diventate norma sociale anche le sue evidenti nevrosi sessuali.

        Oggi, gli oligarchi della Penisola arabica e del Golfo Persico barattano petrolio al posto delle perle, dei datteri e dell’incenso di cui, oltre alle razzie - la parola stessa è di origine araba – e alle scorrerie piratesche, i loro antenati vissero per millenni fino quasi alle soglie della seconda guerra mondiale. Le superbe torri che oggi costellano le rive degli Emirati potrebbero far invidia a quella di Babele, se solo fossero il risultato di abilità e capacità indigene. In realtà, esse sono state erette grazie alle abilità costruttive di tecnici e maestranze stranieri, così come di produzione straniera sono gli altri beni preziosi di cui gli sceicchi della Penisola amano circondarsi: dai marmi, agli arredamenti lussuosi e ultra-sofisticati, alle auto sportive, agli aerei e ai panfili. In particolare il mondo islamico dei petrodollari, salvo rare eccezioni, consuma i prodotti della civiltà perfezionata, ma non ha acquisito la capacità e probabilmente neanche la voglia di produrli. Qui sta del resto una delle profonde contraddizioni del mondo islamico: esso tende ad accusare l’Occidente – sotto vari punti di vista, non a torto - per il suo materialismo, ma poi usa e ambisce a sua volta tutti i suoi stessi prodotti materiali, che però non è capace di fabbricare. 

       Se si considera che, nonostante i loro modelli orientali anche di tipo religioso, nazioni come il Giappone, la Corea o l’India hanno comunque sviluppato altissimi livelli di creatività tecnologica, la caratteristica di mero e passivo consumatore di larga parte del mondo islamico è un problema che necessita evidentemente un trattamento a parte. Possiamo però fare una semplice osservazione: anche un mondo che non eccelle nella produzione di strumenti tecnologici può comunque acquisirli ed utilizzarli. E fra le loro derive ve ne sono alcune necessarie alle organizzazioni terroristiche in particolare: competenze informatiche, chimica degli esplosivi, armi, cellulari.

       Mentre è banale osservare che il costo di tali strumenti e dell’apparato logistico delle organizzazioni che li utilizzano presuppone stabili fonti di finanziamento, meno ovvie rimangono le identità di queste ultime. Quelle legali e legittime sono ben note e mostrano l’impegno con cui vari Stati islamici hanno finanziato nel corso degli anni tutta una serie di organizzazioni aventi per scopo ufficiale la diffusione dell’Islàm più conservatore. Sorsero così, fra le tante, il Centro Islamico di Ginevra, fondato con aiuti pakistani nel 1961; la Lega islamica Mondiale, fondata alla Mecca dal principe Feysal nel 1962 per la diffusione e protezione dell’Islàm senza corruzioni innovative, fino alla banca al-Taqwa, fondata nel 1988 alle Bahamas, avente come scopo ufficiale quello di finanziare e accrescere l’influenza delle istituzioni islamiche in Europa.

       La zona grigia che separa i suddetti finanziamenti in doppio petto da altri meno innocenti è purtroppo scarsamente leggibile. Pur in mancanza di prove concrete, appare comunque difficile, se non altro per motivi di solidarietà concettuale, eliminare l’idea che i finanziamenti stabili goduti dai terroristi provengano da facoltosi sostenitori islamici, privati e non. Dopo di che, tutti saranno d’accordo che sull’argomento vi è spazio per le supposizioni più romanzesche e mefistofeliche. Il ruolo inoltre detenuto in tali neanche tanto fantasiosi scenari dal sottobosco costituito dai servizi segreti di mezzo mondo è probabilmente inquantificabile. Quanto tale sottobosco, in particolare nel caso degli Stati Uniti, possa agire come ciò che fu a suo tempo definito “il governo invisibile”(D. Wise – Th. B. Ross, The invisible government, 1964), traspariva già nelle tardive dichiarazioni di Truman a proposito di quella CIA costituita proprio dietro sua iniziativa nel 1947. “Mi piacerebbe” - egli avrebbe poi scritto nel 1963 – “che la CIA fosse ricondotta alla sua originaria missione di braccio informativo del presidente e che i suoi compiti operativi (sic) vengano terminati.” (The Washington Post, 22.12.1963.) Velatamente, l’ex-presidente stava ammettendo che l’agenzia si era attribuita anche iniziative e spazi decisionali che non erano di sua competenza. In realtà, quei compiti così poco limpidi non furono mai terminati e, con tutta probabilità, si sono verosimilmente estesi e incrementati a dismisura nel corso dei decenni senza che nessuna autorità americana abbia avuto l’iniziativa o il potere di porvi fine.

         Di fatto, i danni provocati da tale istituzione non solo alla politica estera ma anche all’immagine di quella grande nazione che è l’America sono immensi e i benefici scarsi, a parte certi ben documentati annuari informativi.

        Per ritornare ora alle aristocrazie feudali della Penisola araba, così premurosamente corteggiate e riverite proprio dai governi più democratici e liberali, ciò a cui un osservatore privo di ulteriori strumenti di verifica può comunque attenersi è che queste ultime sono esposte non solo a rivendicazioni di tipo sociale e politico - presto o tardi si faranno sentire - ma anche alle pressioni degli ambienti più conservatori. Custodi di Medina e della Mecca, culla del fondamentalismo di wahabita memoria, i Sauditi, per esempio, possono condannare a parole il terrorismo, ma l’ideologia alla base del loro regime e della loro autorità morale è la stessa Shariah che le manovalanze del terrore islamico pensano di promuovere o rivendicare con i loro attacchi selvaggi. Esiste insomma una continuità ideologica, anche se non necessariamente operativa, fra chi semina il terrore e gli esponenti in doppio petto dell’Islàm più intransigente e conservatore.

       Fra le molte zone d’ombra che intorbidano il quadro del terrorismo islamico, una delle più inquietanti è la dilagante espansione dell’IS proprio sotto gli occhi di tutti e nonostante le capacità di rilevazione e intercettazione detenute da Paesi come gli Stati Uniti. Non meno oscuri  sono poi anche i fatti connessi alla cattura del leader dell’IS, Abu Bakr al-Baghdadi, da parte delle forze armate americane nel 2004, nonché al periodo della sua effettiva detenzione e alle circostanze con cui sarebbe stato poi rilasciato in quanto “prigioniero di basso livello” (vedi: The New York Times, 10.8.2014). Errore, innocente ma insipiente sottovalutazione o qualcosa di meno limpido? Tutti questi realistici interrogativi suggeriscono un’immagine poco lusinghiera delle capacità di analisi dei servizi segreti americani, i cui fiaschi sono stati sorprendentemente numerosi e ripetuti dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, da quello della Baia dei Porci, al tempo della progettata invasione di Cuba, fino al Laos o alla caduta dello Shah di Persia nel 1979, per non parlare della presunta esistenza (in realtà, inesistenza) di armi di distruzione di massa tenute nascoste dal defunto “cattivo” di Bagdad, alias Saddam Hussein, peraltro a suo tempo in ottimi rapporti con Dick Cheney e Donald Rumsfeld.

       Corollario dei suddetti misteri è inoltre il fatto che il dilagare dell’IS sia in buona parte avvenuto anche a spese di una Siria vituperata e contestata ma dove nessuno ha il coraggio d’intervenire sul serio, e fra l’altro sotto gli occhi degli altrimenti ombrosi e bellicosi Turchi, i quali sono più preoccupati delle rivendicazioni curde che di qualsiasi problema interno della Siria. E’ per lo meno singolare che, dopo una massiccia e catastrofica invasione dell’Iràq, adesso nessuno sembri poter o voler destinare risorse per operazioni terrestri nei territori invasi, fornendo con parsimonia agli unici volenterosi, i peshmerga (ovvero i votati alla morte) curdi, le armi necessarie per fronteggiare i seguaci del Daesh.

        In quanto all’attuale caos e disastro umano oggi vigente in Siria, con tutti che bombardano tutto, senza che spesso sia possibile capire “chi” realmente bombarda “chi”, mentre non è un mistero che una minoranza alawita (una forma di sciismo) governa un Paese a maggioranza sunnita, una cosa é tuttavia indisputabile: prima della poco trasparente “opposizione” e dei relativi sostegni euro-americani, nonché della grancassa mediatica anti-Assad  (che ricorda quella anti-Saddam Hussein), la Siria aveva ancora un’economia, le città non erano bombardate, i venerabili templi di Palmira ancora si ergevano e non vi era nessun esodo di profughi.

        Come si vede, gli attacchi terroristici di questi anni s’inquadrano in uno scenario intricato, contorto e di non facile interpretazione. Ad aggravarlo ulteriormente si è ora aggiunto il caotico e gigantesco afflusso di migranti dal nord Africa e dalla Siria, Afganistan, etc., e cioè, da Paesi a prevalenza musulmana, che si portano dietro, oltre alla penuria, alla disperazione e alla speranza di un futuro migliore, anche il bagaglio genetico di cui si parlava prima e una non sotto valutabile prolificità apparentemente in disuso in Europa, prolificità di cui ci occuperemo in dettaglio più avanti. L’intensificarsi del terrorismo islamico e tale ondata migratoria sono troppo concomitanti perché li si possa giudicare separatamente. Non a caso, entrambi i fenomeni erano sconosciuti nel periodo precedente la seconda guerra mondiale. Come mai?

         Il mondo islamico aveva conosciuto, specie dalla metà del XIX secolo in poi, riformatori e ideologi. Tuttavia, figure come il misterioso agitatore Giamàl ad-Din al-Afghani (1838-1897), ma anche il suo discepolo Muhammed Abduh (1849-1905), una delle glorie della moderna cultura egiziana, erano più interessati alla modernizzazione e all’indipendenza del mondo islamico che non al ripristino di un Islàm più rigido e conservatore, cosa che era invece l’obiettivo del fondatore della Fratellanza Musulmana, Hasan al-Bannà (1906-1949). Da notare che, ben prima che la questione palestinese esistesse e proietasse la sua ombra sulle rivendicazioni islamiche di questi anni, già nel 1928 Hasan al-Bannà progettava e predicava la rinascita di un Islàm purificato e rigidamente aderente ai precetti della Shariah.

         In ogni caso, anche tenendo conto di queste esigenze di riformismo radicale, ancora fino agli anni ’60 del XX secolo, il fenomeno del terrorismo islamico era praticamente sconosciuto.

        Esso inizia a manifestarsi e a moltiplicarsi soprattutto dagli anni ’70 in poi, fra l’altro, anche in Paesi musulmani. Basta ricordare il massacro degli 83 cadetti della Scuola di artiglieria di Aleppo, organizzato nel 1979 da guerriglieri provenienti dalla Fratellanza, e i successivi frequenti attentati sempre effettuati da membri o simpatizzanti della stessa. E’ noto como, dopo un ennesimo attentato di quest’ultima a un villaggio alawita, vicino alla cittadina di Hama, l’esercito siriano fece strage dei rivoltosi che vi si erano rifugiati.

        Non meno tenero di Assad era stato del resto Hussein di Giordania con i Palestinesi dell’OLP, insediatisi in Giordania e che minacciavano di portargli via il regno. Fu questa la ragione della spietata epurazione di migliaia di guerriglieri palestinesi e dell’espulsione dell’OLP dalla Giordania nel fatale settembre 1970. Anche questi ultimi fatti sono ben noti. Menzionarli qui serviva solo a rafforzare l’idea prima espressa che la conflittualità del mondo arabo-islamico ha radici interne più vaste, che non sono riconducibili unicamente a rancori anti-israeliani.

        Lo scenario sopra esposto suscita tutta una serie di interrogativi di non facile risposta.

        Perché tale conflittualità e il terrorismo islamico si sono sostanzialmente scatenati dopo e non prima della seconda guerra mondiale? Come ha potuto poi l’Europa letteralmente dormire per decenni, accogliendo distrattamente e ospitando con eguaglianza e liberalità non solo milioni di musulmani ma anche luoghi di culto e organizzazioni islamiche di tutti i tipi e mostrandosi accomodante di fronte a una lampante mancanza di reciprocità da parte di tanti Paesi islamici? Come mai oggi, invasa da folle innumerevoli di migranti in maggioranza musulmani, la classe politica europea usa come criterio quello di fumosi principi umanitari senza un minimo di cautele, controlli e, sia detto onestamente, limiti quantitativi? Solo di recente molti Stati europei hanno iniziato a frenare gli ingressi e a erigere sbarramenti, ma il flusso migratorio non è cessato, costituendo moltitudini in attesa nel sud dei Balcani e in Turchia. Che senso ha che i dirigenti dei Paesi vittima di attacchi terroristici dichiarino enfaticamente che sono “in guerra” col terrorismo? Si tratta solo di attacchi terroristici che hanno mietuto qualche migliaio di vittime – cinicamente irrilevanti rispetto alle ecatombi di guerre vere e proprie – o i loro effetti globali superano infinitamente il numero aritmetico delle vittime e sono non meno catastrofici delle suddette ecatombi?

        Ovviamente, sarebbe impossibile e pretestuoso pensare di dare risposte puntuali ed esaurienti agli interrogativi sopra menzionati, fra l’altro nello spazio di poche pagine. Quelle che seguono sono quindi solo modeste e preliminari considerazioni e nulla di più.

       Una prima osservazione riguarda l’emblematica correlazione e concomitanza fra il diffondersi della ricchezza nei Paesi e regimi islamici più intransigenti e il proliferare del terrorismo, esercitato non più con i pugnali ma con armi da fuoco sempre più sofisticate. Esse presuppongono ricchezza, perlomeno di qualcuno. I kalashnikov, gli esplosivi e i razzi costano più dei vecchi moschetti e dei tradizionali pugnali. La correlazione in questione sarà disputabile e poco verificabile, ma rimane il fatto che prima dello sfruttamento del petrolio, i Musulmani della regione non si dedicavano al loro sport sanguinario. Con un’equazione semplificata al contrario, arriveremo al seguente conto della serva: niente soldi = niente costose e sofisticate armi da fuoco, cellulari, computers, etc. = probabile ritorno a strumenti offensivi più rozzi = meno attentati o meno morti….

       Naturalmente, esistono anche i fornitori di armi e chi le produce, argomento, quest’ultimo, sorprendentemente assente anche nei più estrosi e audaci mezzi d’informazione altrimenti petulanti e ansiosi di notizie. In mancanza di prove specifiche, una cosa è sicura: nonostante le pompose dichiarazioni pacifiste a destra e a manca, la produzione e la vendita di materiale bellico, in prima persona o dietro il paravento d’intermediari, non conoscono sosta, ed è grazie a costoro che gli strumenti di morte arrivano anche nelle mani dei terroristi.

        Ai fattori sopra accennati ne va inoltre aggiunto uno di tipo strategico-maniacale: l’ossessiva contrapposizione della guerra fredda, il cui fantasma sembra risvegliarsi in questo periodo nonostante il consolidato imborghesimento capitalistico della Russia, ha probabilmente distratto l’attenzione dei suoi protagonisti da problemi ben più importanti, come l’inquinamento globale, l’esplosione demografica mondiale, il drammatico aumento della popolazione musulmana in Occidente e la crescente spinta fondamentalista islamica dalla Nigeria fino al Sud-Est asiatico. In anni passati, proprio a causa di tale forsennata contrapposizione, nel caso degli USA, abbiamo anche assistito all’esilarante trovata di istruire e armare in Afganistan, in funzione anti-sovietica, proprio dei Talebani che non avevano mai nascosto le loro inclinazioni fondamentaliste.

         L’imprevedibile sostegno ai Talebani fu irresponsabile, oltre che surreale, ed ebbe anche un riflesso cinematografico (vedi Stallone in un film dove appunto aiuta i bravi patrioti talebani a combattere i cattivi Russi). Un altro esempio tipico di queste sconcertanti alleanze, sempre frutto dell’operosità delle agenzie dei servizi segreti, è quello relativo all’appoggio fornito a un altro gruppo non certo progressista, come lo è la già menzionata Fratellanza Musulmana. Nel 1953 una delegazione di quest’ultima, che in Palestina diventerà poi Hamàs, finanziariamente sostenuta per decenni dall’Arabia saudita, ebbe addirittura l’onore di essere ricevuta ufficialmente dal Presidente Eisenhower a Washington.

        Negli anni ’70 l’organizzazione fu poi concretamente appoggiata dalla CIA e dall’Arabia saudita come contrappeso alla crescente influenza sovietica in Egitto (come noto, la diga di Assuan fu costruita con aiuti sovietici). Non a caso, in quegli anni le librerie del Cairo erano colme di pubblicazioni sovietiche di tutti i generi.  Venuto meno l’appoggio saudita, la Fratellanza avrebbe continuato a godere del sostegno del Qatàr, dandosi un gran da fare per potenziare e conferire un’aura di innocente legittimità alle sue varie diramazioni europee, specie in Inghilterra, mentre lo strumento di aggregazione utilizzato in Palestina furono le iniziative di solidarietà sociale (ospedali, scuole, etc.). Fu probabilmente a causa di queste abilità di facciata in doppio petto e di moderazione che la famigerata e mai pubblicata PSD-11 (Direttiva Presidenziale di Studio) dell’amministrazione Obama del 2011 enunciava una strategia di sostegno a favore della Fratellanza, considerata come un utile contrappeso all’estremismo di Al-Qaida. Ciò spiega la successiva meteorica ascesa al potere in Egitto di un Mohamed Morsi che, oltre ad avere studiato e insegnato in università americane e lavorato per la NASA, era un membro influente proprio della Fratellanza. Appena insediatori al potere, tuttavia, nonostante la retorica circa la sua conclamata elezione democratica, Morsi avrebbe iniziato a intraprendere tutta una serie di misure islamizzanti della società che rivelavano l’antica anima rigorista e totalitaria dell’organizzazione. Checché se ne dica dei benemeriti della democrazia parlamentare, paradossalmente, si deve nuovamente a un militare, l’attuale presidente Abd el-Fattah el-Sisi, il ripristino di una gestione più laica e garantista dello Stato. C’è da credere che el-Sisi, uomo del luogo, conosca l’anima intima e integralista della Fratellanza più degli uomini della CIA.

        Nonostante questi precedenti e nonostante le nuove eruzioni di violenza in Egitto, istigate o tollerate dalla Fratellanza, per oscuri motivi essa continua ad attirare simpatie in certi ambienti dell’amministrazione americana e una sua delegazione è stata ricevuta di recente a Washington, anche se in sordina. Se, come si può ragionevolmente ipotizzare, tali simpatie hanno lo scopo di mantenere aperto un dialogo con un interlocutore potenzialmente destabilizzante ma influente, non si vede come ciò sia compatibile con il sostegno dato da Washington a Israele. Il sicuro risultato di simili doppie o triple amicizie con i nemici degli amici, spesso scambiate a torto per abilità politica, è in genere una maggiore confusione e il preludio a ulteriori disastri. In ogni caso, anche questo è un esempio del come la politica estera americana sembri  dettata da strategie meno limpide di quanto le dichiarazioni ufficiali non suggeriscano e sia influenzata da entità scarsamente trasparenti come le varie CIA e NSA di turno. Del resto, “the invisible government” prima citato era già stato a suo tempo denunciato nell’ormai lontano 1956 anche da Wright Mills nel suo classico studio L’elite del potere. Tutto suggerisce che oggi come allora un ristretto establishmente politico-militare-economico assai poco visibile opera con l’obiettivo, sempre più anacronistico e goffo di preservare l’egemonia americana a migliaia di chilometri da Washington.

       Da tutte queste osservazioni, che non sono delle scoperte originali, emergono comunque almeno due fattori inquietanti. Uno è che, prima delle ricchezze petrolifere del mondo arabo, il fondamentalismo nelle sue forme violente e il terrorismo non avevano fatto la loro comparsa. L’altro è che il tutto sembra comunque radicalizzarsi solo dopo che alla gestione imperiale Britannica di un terzo del mondo si sostituì quella, “democratica” ma non meno imperiosa di Washington, a cui mancava però la secolare esperienza internazionale di chi la precedeva. La grande, incommensurabile differenza fra l’Imperialismo britannico e i tentativi di egemonia americana del dopoguerra è che l’espandersi del primo avvenne nell’arco di secoli e fu segnato da iniziali tappe e obbiettivi commerciali, mentre le manifestazioni dell’egemonia americana sono state fulminee e marcate fin dall’inizio da operazioni puramente militari.

        Quale che sia il peso da dare ai fattori sopra menzionati, è indisputabile che l’attuale conflittualità, le tensioni, le lotte intestine, le faide e gli attacchi terroristici odierni erano inesistenti o assai limitati prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale e i successivi mutamenti geo-politici. Sembra una curiosa coincidenza, ma esauritosi il ciclo delle paranoie e patologie ideologiche della falce e martello, delle svastiche e del fascio, un altro ciclo di paranoie e patologie ideologiche non meno temibili è adesso in corso.

        Veniamo ora al secondo interrogativo.

        Come noto, durante la seconda guerra mondiale, grazie ai loro appelli per la difesa della democrazia e della libertà, in particolare la Francia e la Gran Bretagna, riuscirono a infoltire i loro eserciti di milioni di volenterosi sudditi coloniali. Il risultato non del tutto atteso fu che, a guerra finita, tali Paesi ebbero sempre più difficoltà non solo a giustificare la loro permanenza nelle colonie ma anche a rifiutare l’ingresso nel territorio metropolitano, oltre ai coloni costretti a rientrare, anche a milioni di ex- sudditi Algerini, Marocchini, Africani, Indiani, Cingalesi, etc. Il massiccio riflusso afro-asiatico in Europa dopo la seconda guerra mondiale fu il prezzo (tutto sommato logico) che le Potenze Coloniali pagarono per i loro secoli di dominio ma anche un atto di distrazione motivato da confusioni ideologiche. Altro è tuttavia ospitare quando si è padroni del mondo, e altro è ospitare quando non lo si è più, soprattutto se si sono spesi mari d’inchiostro sulla tolleranza civile e religiosa  delle moderne democrazie occidentali. Fu proprio grazie ad essa che vennero impiantate in Europa innumerevoli organizzazioni islamiche come quelle sopra citate, incluse moschee e altri centri d’indottrinamento religioso.

         Sempre in base ai suddetti valori, le numerose e popolose colonie islamiche in Europa come in altri Paesi occidentali godono in generale di una totale libertà di culto e di movimento e degli stessi diritti dei cittadini non musulmani di quei Paesi. Ora, se andiamo a verificare le stesse libertà e parità nei confronti di occidentali o cristiani nei Paesi a prevalenza musulmana, noteremo senza molte difficoltà che la situazione è in genere ben diversa, se non del tutto opposta.

         In realtà, mentre i musulmani, cittadini o solo anche turisti, godono di complete libertà di movimento e costumi nei Paesi occidentali, nei Paesi musulmani, al contrario, gli occidentali sono molto spesso soggetti a restrizioni di vari tipi, inclusa quella dei rapporti anche innocenti con l’altro sesso. Le affaristiche mitologie dei paradisi turistici di tanti luoghi come il Mar Rosso non devono ingannare: si tratta di ghetti artificiali che niente hanno a che vedere con la dimensione giornaliera della città islamica, dove il turista occidentale scoprirebbe oggi una spiacevole serie di limitazioni.

         Una di esse riguarda proprio la libertà di culto. Mentre i cittadini di religione musulmana hanno costruito e costruiscono moschee e centri religiosi in tutti i Paesi occidentali, i cristiani o i seguaci di altre fedi, al contrario, ben difficilmente possono farlo nei Paesi musulmani. Sia che si tratti di turisti o di maestranze e tecnici importati, in molti casi costoro non incontreranno edifici di culto, oppure non possono erigerne uno o sono costretti a celebrare i loro riti in una casa privata. Esempio clamoroso di tale squilibrio di situazioni è la presenza a Roma, la sede più cospicua del cattolicesimo mondiale, della più grande moschea al di fuori del mondo islamico, mentre non ne esiste neanche una lillipuziana alla Mecca, e quelle che rimangono in Paesi come l’Iràq, per esempio, sono esposte a mortali insidie. Di fatto, nel mondo islamico la possibilità di costruire delle chiese o la pubblica pratica di un’altra fede si assottigliano fino a ridursi a zero man mano che ci avviciniamo alle città di origine dell’Islàm, la Mecca e Medina.

        Quanto la libera pratica di un’altra fede sia esposta all’ostilità popolare o delle istituzioni è del resto dimostrato dall’aggressività spesso mostrata in Egitto verso i Copti o verso altre comunità cristiane in Iràq, Kenia o Somalia, tutte oggetto di aggressioni, massacri e stupri negli ultimi decenni. L’intolleranza diventa poi ancora più rigida, se si tratta poi della scelta della propria fede. Mentre nessun ordinamento di uno Stato occidentale prevede punizioni per chi abbia deciso di convertirsi a un’altra religione, nei Paesi islamici, al contrario, l’abbandono di quest’ultima, la cosiddetta irtidàd o riddah (letteralmente, “apostasia”), considerata un delitto capitale, è teoricamente passibile anche della pena di morte e comunque stimolo per linciaggi popolari. Detto ciò, non stupisce che per esempio l’imperturbabile sultano del Brunei, non a caso in ottimi rapporti con la famiglia reale inglese, abbia pensato di proibire ogni celebrazione natalizia con riferimenti cristiani e abbia anche dichiarato che intende ripristinare la pena della lapidazione pubblica per certi reati come l’adulterio e l’apostasia.

        La situazione non varia infatti per quanto riguarda le relazioni con l’altro sesso. Non solo l’adulterio ma anche i rapporti fuori dal matrimonio sono considerati dei crimini passibili di punizioni esemplari come la lapidazione, pena quest’ultima che sembra incontrare l’approvazione di folti strati popolari del mondo islamico, come mostra il linciaggio di Farkhunda Malikzada in Afganistan menzionato in precedenza. Così, mentre le donne musulmane godono in Europa degli stessi diritti riconosciuti da quelle legislazioni a tutti i cittadini, in molti Paesi islamici, in particolare nella Penisola Araba, ma anche in Sudan, Iràq e Libano, esse sono al contrario prive di molti diritti, fra cui anche quello di voto e di guida. Nel caso di stupro, in mancanza di dettagliate prove circostanziali, sono esse che rischiano paradossalmente di essere punite per adulterio, mentre anche nel pur evoluto Libano l’aborto continua a essere punito col carcere fino a sette anni. Riguardo alle limitazioni inflitte alle donne, non bisognerebbe inoltre dimenticare l’infibulazione, ancora oggi largamente praticata non solo nell’arretrata Mauretania e in Sudan, ma anche in Egitto in modo tristemente massiccio.

         Un altro esempio apparentemente modesto ma simbolicamente significativo di questa radicata intolleranza (l’alter ego genetico) è del resto, nei Paesi musulmani più rigorosi, l’estensione della proibizione degli alcolici anche agli stranieri. Eppure, chi abbia frequentato qualche Stato del Golfo Persico avrà spesso notato furtive bottiglie di whisky sotto il tavolo d’irreprensibili ricchi notabili in kandura (il lungo abito locale in genere di colore bianco).

         Detto in altre parole, sono solo i musulmani trapiantati nei Paesi cristiani ad usufruire della massima tolleranza e libertà, e non anche viceversa. Inoltre, anche se il fatto sembra privo di significato, la quantità di musulmani che hanno potuto liberamente stabilirsi in Paesi occidentali è immensamente superiore a quella degli Occidentali stabilitisi nello stesso periodo nei Paesi musulmani. Il perché ciò sia accaduto è ovviamente in relazione con le restrizioni, limitazioni e divieti imposti nei Paesi musulmani ai cittadini stranieri di fede non musulmana

        Quelle sopra menzionate, più che differenze di trattamento o di comportamenti sono in realtà delle gravi asimmetrie di fondo nel riconoscimento e tutela delle libertà civili fra Paesi islamici e Paesi occidentali, che avrebbero dovuto suscitare adeguate reazioni da parte delle nazioni interessate e degli organismi internazionali. Di fatto, le reazioni non si sono mai manifestate, e tutte le suddette asimmetrie permangono e anzi aumentano, costituendo una delle principali vergogne del mondo occidentale, oltre che un grossolano errore che presto o tardi darà i suoi frutti.  

        E’ significativo ma non casuale che queste clamorose asimmetrie, in genere trascurate e ipocritamente velate a destra e a manca, deliberatamente o per pura ignoranza, siano accompagnate dalle petroamicizie e alleanze di USA Gran Bretagna con regimi feudali e intolleranti come l’Arabia Saudita o altri simili. Gli strateghi e politici di turno sentenzieranno molto probabilmente che le relazioni internazionali non possono essere sempre basate su ciò che sarebbe moralmente corretto o logicamente equilibrato, ma anche la real-politik, per quanto spesso necessaria, superati certi limiti, diventa contro-producente e gravida di sviluppi deleteri.  

         Recente esempio di come l’utilitarismo mercantile possa degenerare in situazioni ridicole è stata la copertura delle statue femminili dei Musei Capitolini durante la visita del presidente iraniano Rohani a Roma. Per una sorta di surreale imitazione oltre che di resa culturale, l’inscatolamento delle peccaminose statue (mirato, si suppone, a non offendere la suscettibilità dei visitatori, non a caso agognati acquirenti) corrispondeva a tutti gli effetti al velo imposto alle donne musulmane. Un capolavoro della finzione politica…L’episodio è talmente miserando che non varrebbe la pena di menzionarlo, se non fosse che esso s’inserisce in una sorta di corale e dilagante remissività fatta di codardia culturale, oltre che di timore di non perdere buoni affari e di inimicarsi potenziali alleati regionali.

       L’aumento della popolazione di fede islamica in Occidente e la recente invasione migratoria sono il complemento demografico e per così dire lo strumento, presente e futuro, di un’aggressività mascherata e strisciante ma non meno insidiosa.

       Come al solito, anche se sprovvisti di nobiltà e di ampollosi valori, i numeri hanno il vantaggio di essere poco disputabili. Se la crescita della popolazione mondiale dovrebbe preoccupare qualsiasi persona dotata di buon senso, a parte gli insensati difensori del libero corso della natura – chi ancora sostiene il famoso “siate fertili e moltiplicatevi” pensa di essere ancora al tempo dei Patriarchi – la sproporzione fra il tasso di fertilità nei Paesi occidentali e quello dei musulmani rappresenta uno dei fenomeni più inquietanti dell’ultimo mezzo secolo. 

        Chi per curiosità andasse a sfogliare The Statesman’s Year-Book  del 1939, che costituisce l’incomparabile fotografia di un mondo che stava per cambiare drammaticamente, scoprirebbe varie cose significative. Per esempio, scoprirebbe che la principale voce delle esportazioni dell’Arabia Saudita erano ancora i…datteri. Del petrolio si era appena scoperta l’esistenza e si sperava che potesse appunto aiutare l’economia del dattero… Bahrain viveva ancora della pesca delle perle e sempre meno dell’esportazione di cammelli (stavano arrivando i mezzi di trasporto a quattro ruote) e Texaco e Standard Oil avevano iniziato a estrarre modeste quantità di petrolio. Da notare che la Gran Bretagna ancora aveva un suo “residente politico” sia nei Trucial States (gli odierni Emirati Arabi), che a Bahrain, in Qatar e in Oman.

        Le sorprese aumenterebbero a proposito dei dati demografici.

        Al posto degli attuali Israele e Giordania, esistevano ancora la Palestina e la Transgiordania, amministrate dalla Gran Bretagna, mentre Siria e Libano erano amministrate dalla Francia. Ora, le cifre relative alle rispettive popolazioni in base al censimento ONU del 2013 sono impressionanti, se rapportate a quelle del 1939. La popolazione complessiva della Transgiordania (oggi diventata Giordania) era di 6,5 milioni di abitanti contro i circa 300.000 del 1939. La popolazione dei Territori palestinesi ammonta oggi a circa 4,2 milioni contro 1 milione nel 1939, mentre quella di Israele ammonta a 8,2 mlioni contro i circa 400.000 dello stesso periodo. Di fatto, la popolazione ebrea propriamente detta, aumentata soprattutto per effetto di immigrazioni della diaspora, pesa 6,2 milioni, mentre 1,7 milioni sono arabi musulmani. In quanto alla Siria e al Libano, mentre le loro popolazioni erano nel 1939 rispettivamente di circa 2.050.000 abitanti (incluse le zone di Latakia a maggioranza alawita e il Jebel dei Druzi) e di circa 850.000, la popolazione attuale della Siria prima dell’attuale esodo era pari a 22 milioni, mentre quella del Libano è di 4,5 milioni.  L’Egitto aveva una popolazione di 14,2 milioni di abitanti, mentre oggi essa è salita a 82 milioni e l’Algeria, che contava 7,2 milioni di abitanti, ora ne conta 39.

         Questi dati diventano ancora più significativi, se messi in rapporto ai dati analoghi per le nazioni europee.

         La popolazione in Italia, per esempio, era di 43 milioni di individui contro i 60,8 attuali, ma di questi ultimi, 5,7 milioni sono stranieri e l’aumento della popolazione dopo il 1945 fu dovuto anche al rientro in patria degli Italiani d’oltremare. La Grecia aveva 7 milioni di abitanti contro gli 11,1 attuali, all’interno dei quali bisogna però contare circa 1 milione di immigrati recenti e gli individui di origine Albanese affluiti in Grecia nel corso degli ultimi 75 anni. La Francia aveva circa 42 milioni di abitanti contro i 67 attuali, ma di essi, circa 7,5 sono stranieri, di cui 4,7 sono musulmani. Di fatto, la Francia, storicamente la più popolosa nazione europea, ha registrato il più alto incremento demografico in Europa degli ultimi 50 anni, ma a questo incremento hanno evidentemente contribuito anche i rientri dei pieds noirs e le nascite degli immigrati ex-coloniali naturalizzati dopo la seconda guerra mondiale. La popolazione della Gran Bretagna, che era di 45 milioni di abitanti, ammonta oggi a 64,1. Di questi, 7,8 sono stranieri, con 2,9 milioni di musulmani. Come nel caso dell’Italia e della Francia, l’incremento post-bellico della popolazione propriamente inglese è in parte non sotto stimabile dovuto al rientro degli espatriati inglesi da tutte le colonie e dominions progressivamente distaccatatisi. Il caso della Germania è altrettanto significativo. La sua popolazione, che era di 66 milioni nel 1939, è oggi di circa 80,2 milioni di individui, di cui però solo 64,8 milioni non sono immigranti. Dei 15,4 milioni di immigrati di vario tipo, 4,2 sono musulmani. (Cfr. The Statesman’s Year Book 1939; The UN report:Trends in international migrant stock.The 2013 revision; CIA, The World Factbook. Population; The Guardian Datablog 28.1.2011; Israel Central Bureau of Statistics.)

        Anche i pochi elementi sopra riportati a mo’ di esempio – dati più esaurienti e completi sono facilmente reperibili nelle fonti statitistiche sopra citate - costituiscono il forte segnale di due inoppugnabili fenomeni: 1) il tasso di crescita della popolazione nei Paesi musulmani nell’ultimo mezzo secolo è stato di gran lunga superiore a quello della maggioranza dei Paesi europei; 2) la popolazione musulmana in Europa è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi decenni. A questi fenomeni se ne aggiunge un’altro complementare: il tasso medio mondiale di fertilità, ovvero il numero di figli che una donna può avere durante la sua età fertile, è di 2,8. Se però andiamo all’interno di questo dato, scopriremo che, mentre in Europa e nell’America settentrionale esso oscilla da 1,6 a 1,9 (ma in Paesi come la Russia, l’Ungheria, l’Estonia e l’Ukraina è praticamente attorno allo zero), in buona parte delle nazioni africane esso supera 5,1 e arriva a 6,7 in Niger. Nei Paesi musulmani il tasso medio di fertilità è in ogni caso attorno a 3. Naturalmente, anche all’interno di questo dato esistono notevoli discrepanze e inversioni di tendenza, come il vistoso calo delle nascite in Iràn nell’ultimo decennio. Nonostante varie indicazioni mostrino che le mutate condizioni di vita, specie dei musulmani stabilitisi in Europa, avranno un riflesso negativo sugli attuali tassi di fertilità, essi sono peraltro ancora attestati a livelli che provocheranno significativi aumenti nella proporzione della popolazione musulmana europea dei prossimi decenni.

         Le implicazioni di questi crudi dati statistici, di per sé gravi e inquietanti, lo diventano ancora di più, se messe in relazione con l’attuale sfrenato flusso migratorio dal Mediterraneo e dai Balcani verso il cuore dell’Europa. Poiché la maggioranza dei migranti è musulmana e proviene da Paesi ad alto tasso di fertilità, la loro presenza non farà che incrementare la crescita esponenziale degli individui di religione musulmana in Europa. Se poi fosse, infaustamente, concesso alla Turchia l’ingresso nell’Unione Europea, l’islamizzazione di quest’ultima diventerebbe quasi istituzionale.

          Per prevenire tipiche e poco intelligenti accuse di intolleranza e discriminazione razzial-culturale, conviene fare qui alcune ovvie precisazioni e ricordare innanzitutto dei precedenti di cui certo nè l’autore di queste pagine nè l’Occidente sono responsabili. Intanto, già nell’antichissima storia egiziana di Sinuhe (inizi XX secolo a.C.) si parla di un muro eretto ai confini orientali del delta egiziano per impedire l’accesso degli “abitatori della sabbia” (sic).  Più Avanti, gli Egiziani del tempo di Augusto non potevano uscire dal paese se non provvisti di un regolare passaporto, mentre gli stessi senatori romani non potevano recarsi in Egitto senza previo permesso imperiale. Insomma, anche in tempi antichi veniva sentita la necessità di disciplinare erratici movimenti di gruppi umani.

         In secondo luogo,dovrebbe essere chiaro che il reale problema non è quello delle differenze culturali o di religione ma delle asimmetrie di valori e di conseguenti comportamenti e atteggiamenti radicati nelle società musulmane, che si manifestano anche sotto il profilo della reciprocità dei rapporti.

         I Barbari che invasero l’Impero Romano furono ben presto assorbiti e abbracciarono la cultura greco-romana. I Musulmani stabiliti nei Paesi occidentali non solo non ne assorbono la cultura spirituale – e questo di per sé non sarebbe un problema – ma direttamente o indirettamente impongono, pretendono o semplicemente applicano estensioni di costumi e pratiche del tutto estranee o contrarie a quelle della civiltà occidentale. Inoltre, come abbiamo sottolineato in precedenza, nei propri Paesi essi non riservano agli Occidentali le stesse libertà di movimento e di opinione di cui essi invece godono nei Paesi occidentali. L’asimmetria di cui parlavamo prima si estende anche a dimensioni di tipo culturale. Il mondo islamico è disposto a circondarsi di prodotti tecnologici di fabbricazione occidentale, ma non è altrettanto attratto da quelli intellettuali. Esistono molti più conoscitori e estimatori occidentali di scrittori e pensatori islamici che non estimatori musulmani della cultura occidentale. Quella del maggior grado di alfabetismo e scolarizzazione in Occidente sarebbe una patetica menzogna. In realtà, come molte culture imbevute della propria presunta superiorità e che non hanno imboccato le force caudine del dubbio e della critica, la stragrande maggioranza del mondo musulmano sembra avere la convinzione che non ha più nulla da cercare a livello spiritual-concettuale.

         Detto in altre parole, il problema non è affatto di razza o di religione, ma di come vengono applicati i dettami di una cultura, del con che grado di tolleranza e aperture nei confronti di chi è diverso e di che fino a che punto la mitezza costituisce uno dei cardini essenziali del nostro comportamento, cosa che i Buddisti, per esempio, hanno compreso. Costituisce uno dei grandi paradossi e sconfitte morali del mondo islamico il fatto che il crollo dell’Impero ottomano e le sopravvenute indipendenze nazionali, Turchia inclusa, abbiano segnato non l’intensificarsi della relativa tolleranza vigente nell’impero ottomano e necessaria al suo carattere multi-etnico ma il radicalizzarsi di atteggiamenti e fanatismi settari che sono i responsabili del marasma attuale. A questo proposito, è deprecabile che il geniale e grandioso lavoro fatto da Mustafà Kemal per separare la sfera civica da quella religiosa sia in questi anni sottoposto a un metodico smantellamentto dal regime al governo. Questo è uno degli ulteriori motivi per cui l’ingresso nell’Unione Europea della Turchia con i suoi 74 milioni di musulmani rigidamente conservatori sarebbe destabilizzante.

         Esiste del resto un ulteriore elemento, in genere trascurato o ipocritamente ignorato, che però getta una luce poco lusinghiera su coloro che emigrano e sui loro correligionari che li stanno a guardare. Sembra banale, ma non è in realtà così ovvio perché l’emigrazione avvenga proprio verso i Paesi ricchi degli infedeli e non verso i Paesi ricchi dei credenti, ovvero dei musulmani. Vi sono forse emigranti che si affollano alle frontiere o che tentano di approdare sulle coste dei Paesi ricchi della Penisola Araba? Tutti sappiamo che ciò non accade. La contraddizione è duplice. Anziché dirigersi verso Paesi di religione e cultura affine, i diseredati e disperati viaggiano invece in direzione dell’Europa cristiano-laica. I paesi islamici ricchi, così attenti e sensibili – da lontano - ai problemi della Palestina o alla diffusione dell’Islàm, anziché mostrare benevolenza e “misericordia”, accogliendo le moltitudini nei loro territori, non risulta lo facciano. Il risultato alquanto paradossale è che le voci di compassione e di ospitalità si sono al contrario levate dall’Europa. In quanto alle moltitudini di emigranti provvisoriamente  ospitate in Turchia, né quest’ultimo costituisce la loro meta ambita né i Turchi hanno mostrato particolari intenzioni d’integrarli nella loro società.

         Di fronte a questi comportamenti, e tenendo conto delle asimmetrie sopra menzionate, l’ostilità e aggressività nonché ingratitudine – il terrorismo ne è una forma estrema e degenerata - di vaste fasce del mondo islamico sono a dir poco incomprensibili. Mentre sarebbe facile additare molte pecche dell’attuale sistema di vita occidentale - sfrenato consumismo, materialismo e mancanza di tensione morale inclusi - rimane il fatto che, anche così, perlomeno dalla fine della seconda Guerra mondiale in poi, escludendo quindi la meteorica parentesi di disastrosi “patti d‘acciaio”, esso ha mostrato una liberalità e una tolleranza nei confronti dei diversi, che a quanto pare vasti settori del mondo musulmano non apprezzano, tanto è vero che esso partorisce aggressività e ostilità sempre crescenti.

          Se in generale, nei comportamenti se non nelle dichiarazioni, il mondo musulmano manifesta intolleranza, sembra che larghi strati del pubblico occidentale, drogati dall’oppio di slogans democratici mal assimilati e di grancasse mediatiche che coltivano la diffusione degli stereotipi e dell’omologazione, non si siano resi conto dei pericoli insiti nello scenario sopra descritto. Esso suggerisce che nel prossimo cinquantennio la struttura culturale e sociale dell’Europa sarà inesorabilmente diversa e il suo equilibrio, la sua compattezza e robustezza, già oggi messi alla prova dalle parrocchie di sudditanza d’oltre Atlantico e dalle ricorrenti smanie separatiste o isolazioniste, saranno di gran lunga più fragili. Del resto, se già oggi uno scriteriato governo italiano si sente in dovere di coprire delle innocue statue di dee nude, che potrà avvenire fra cinquant’anni, quando la popolazione musulmana in Europa rischia di essere raddoppiata o triplicata per via degli incrementi demografici e delle immigrazioni? Gli affreschi e le pitture rinascimentali e barocche, lussureggianti di opulenti corpi femminili nudi, verranno imbrattati d’intonaco? E lo stesso avverrà per gli affreschi con figure umane d‘innumerevoli chiese e cattedrali?

        Che oggi assistiamo a un pericoloso riflusso afro-asiatico (ma sostanzialmente islamico) verso l’Europa in particolare, incontrollato e non arginato, ciò è talmente lampante che la miopia e inerzia del gran pubblico, oltre che delle istituzioni, suscitano prima di tutto stupore. Sembra incredibile, ma le amministrazioni pubbliche responsabili di tante città europee fanno finta di non vedere le occupazioni di marciapiedi, piazze, parcheggi, semafori e luoghi di circolazione civica da parte di miriadi di venditori e ciondolanti di tutte le razze, molto spesso aggressivi, pretenziosi e arroganti. A queste occupazioni si sono ora aggiunte le miserande sistemazioni per profughi che stanno spuntando come funghi un po’ dappertutto in Europa, ghettizzando le zone adiacenti. In quanto alle centinaia di migliaia di Inglesi che si sono scandalizzati (con tanto di firma) per le recenti affermazioni di Donald Trump, secondo cui “bisognerebbe bloccare qualsiasi ingresso di Musulmani negli Usa, e poi si vedrà”, anche questo è un esempio del come le reazioni popolari siano molto spesso dettate da stereotipate e incongrue motivazioni. Gli Inglesi in questione hanno infatti la memoria corta.  Il Signor Trump potrà essere pittoresco e la sua spavalderia suscitare perplessità, ma in fondo egli ha solo espresso ragionevoli cautele, mentre la folla dei firmatari della protesta sembra evidentemente dimenticare che, sia durante la seconda guerra mondiale che immediatamente dopo, proprio in Inghilterra nessuno si sognò di accogliere gli Ebrei che riuscivano a scappare dalla Germania e addirittura gli Inglesi rispedivano indietro quelli che tentavano di arrivare in Palestina.

        Come reazione in particolare agli attentati di Parigi, alcuni dirigenti europei (vedi il primo ministro francese Manuel Valls) ma anche americani hanno dichiarato che “siamo in guerra”, ovviamente col terrore islamico. Va qui menzionato en passant che la quasi sicura origine terroristica del disastro dell’aereo russo sul Sinai ha invece suscitato reazioni curiosamente tiepide e meno accorate da parte degli stessi uomini politici. Se i 224 morti dell’aereo russo fossero stati cittadini americani, ovviamente la costernazione e il furore sarebbero stato ben più intensi.

        Ora, la dichiarazione sopra citata, è in realtà una mistificante metafora di tipo emotivo ma nulla di più. Mancano alla situazione tutti i fattori tipici di una vera e propria guerra, mentre ne esistono altri ben più subdoli.

       I terroristi non rappresentano uno Stato con i suoi riconoscibili confini, con i suoi individuabili eserciti. In quanto al sedicente IS, non a caso spuntato dal nulla dopo la farneticante invasione occidentale dell’Iràq, neanch’esso è in realtà uno Stato, ma solo un territorio surretiziamente invaso e controllato col terrore da individui anch’essi poco localizzabili e sfuggenti. Gli attuali attacchi dall’alto alle roccaforti dell’IS e ai pozzi petroliferi sfruttati da quest’ultimo non solo stanno devastando quel poco che rimane dell’economia siriana, ma rimarranno pateticamente incompleti fino a che una robusta coalizione non inizierà a intervenire da terra, ma verso l’lS, e non contro il regime al governo. I Curdi che sono quasi gli unici a provarci, come noto, sono ostacolati dai Turchi.

       Piuttosto che a una guerra, ciò che avviene corrisponde alle forme più subdole e imprevedibili della guerriglia urbana, già note altrove e in altri periodi. La sua novità e accresciuta insidia derivano paradossalmente dal progresso tecnologico, che rende in parte accessibili a chiunque alcuni dei suoi prodotti.  

       E qui si cela uno dei dilemmi più contorti della situazione. Se infatti il terrorista è per definizione solo un individuo anonimo, e se gli attuali regimi politici Europei sono formalmente più democratici e tolleranti di quelli di molti Paesi musulmani, uno dei risultati è che anche i margini di manovra e di invisibilità di costui saranno immensamente superiori in Europa. Non è dunque un caso che molte delle adesioni di cittadini europei ai ranghi dell’IS appartengano ad insospettabili e poco tracciabili adepti.

        In altre parole, l’Occidente non è in guerra con entità riconoscibili e facilmente localizzabili ma solo con ombre e, soprattutto, con entità impalpabili, come sono le idee. E odio, risentimento, livore, zelo omicida sono stati psicologici, annidati nel cervello di un individuo, e perciò impalpabili. In realtà, sarebbe più corretto dire che l’Europa si trova prima di tutto “sotto assedio psicologico”. Oltre al bilancio in vite umane, l’invisibilità e l’imprevedibilità hanno tuttavia un ulteriore effetto, forse ancora più nefasto. Il terrorismo ha provocato infatti l’adozione e il progressivo inasprimento nel corso degli anni di tutta una serie di restrizioni, controlli e misure preventive generalizzate, sia fisiche che anagrafico-finanziarie. Basterebbe pensare a come si viaggiava in aereo fino agli anni ’60 e a come si poteva facilmente entrare in luoghi pubblici o ufficiali senza metal detectors, senza filtri continui fino all’aeroplano – i passeggeri addirittura arrivavano a piedi fino alle scale d’imbarco e, guarda caso, non accadeva nulla di terribile. Sul fronte anagrafico, ancora esisteva sul serio la cosiddetta privacy e gli onesti di questo mondo – ancora sono un bel numero – non erano soggetti alle stesse perquisizioni e schedature elettroniche a cui oggi gli Stati ricorrono con il sedicente scopo di individuare i canali e gli autori delle evasioni fiscali, del riciclaggio di denaro sporco, del traffico di droga e armi e di quant’altro. Grazie a questi formalmente ineccepibili obiettivi la società moderna si sta malinconicamente avviando – malinconicamente anche perché il processo è dissimulato grazie allo scampanio di una presunta democrazia - verso le forme più totalizzanti e diffuse di dominio collettivo che il mondo abbia conosciuto. Tutto ciò è talmente evidente che non varrebbe quasi la pena di menzionarlo, se non fosse che in realtà intere moltitudini umane vivono nella beata ignoranza e illusione di essere liberi. In realtà, ben poco distingue il panem et circenses di romana memoria dall’oppio soporifero degli spettacoli e intrattenimenti mediatici dei tempi moderni. Non pare un’esagerazione melodrammatica affermare che in realtà l’unica vera libertà oggi ampiamente concessa e anzi sollecitata è quella di consumare. In realtà, l’atto feticistico-rituale del consumare è anche il pilastro su cui si regge oggi l’intero sistema economico mondiale, che scricchiola paurosamente tutte le volte che i consumi calano. Che poi l’ineluttabile corollario del consumo ad oltranza, che invischia non solo individui ma anche Stati, possa degenerare in una spirale debitoria senza rimedio a cui sono esposti anche Stati ultra ricchi come gli Stati Uniti, questo sembra essere un problema inspiegabilmente riservato a circoli ristretti e non interessare il pubblico più vasto. Ma ritorniamo al nostro argomento.

         In realtà, uno degli effetti nascosti e forse più foschi del terrorismo è che esso sta giustificando la progressive limitazione delle libertà personali, i controlli legittimati e trasparenti e quelli furtivi da parte di entità invisibili – i casi Snowden e WikiLeaks sono una conferma che non si tratta qui di fantasie romanzesche – quindi lo Stato poliziesco, tutti fenomeni e tendenze non a caso già presagiti e confusamente affioranti nel moderno immaginario collettivo sotto forma di finzione letteraria e cinematografica. Non meno preoccupante è poi il fatto che, mentre gli aspetti criminali degli attentati terroristici sembrano accaparrare tutta l’attenzione e suscitare corali indignazioni, sono di gran lunga più tenui e rare le voci di coloro che denunziano la progressiva falsificazione in atto della democrazia e della libertà individuale.

        Gli elementi sommariamente esposti in precedenza si prestano ad alcune conclusioni finali.

        Il fenomeno del terrorismo è una deriva non casuale di alcuni fattori potenzialmente attivi nella cultura islamica. In ogni caso, i fatti mostrano come, dagli anni ’70 in poi, in un gran numero di Paesi musulmani si sia venuto realizzando una sorta di ripristino o di ritorno - vedi, per esempio, il Pakistan – delle interpretazioni e applicazioni più rigorose e restrittive dell’Islàm. Tutto suggerisce come non si tratti di eventi separati e isolati ma dei concomitanti sintomi di un più generale fenomeno d’involuzione culturale e, per riflesso, di ostilità nei confronti dell’Occidente e di ciò che Samuel Huntington definì in un suo famoso libro come Clash of civilizations. Chi in nome dei buoni affari o di malintesi spiriti di convivenza pacifica, minimizza questi sviluppi o addirittura li nega, è affetto da ingenuità e ignoranza o fa lo struzzo.

         La strisciante invasione islamica dell’Europa, che non va letta con la lente dei mesi o dell’anno ma dei lustri e decenni, è pericolosamente sottovalutata dagli odierni governi europei, nonché da un numero assai alto dei loro cittadini. Misure coraggiose e dignitose sarebbero necessarie per frenarla, disciplinarla o, a seconda dei casi, arrestarla, mentre andrebbe pretesa dai musulmani stabiliti in Europa la stessa tolleranza di gruppo e individuale che l’Europa riconosce loro. In fondo, tutto il problema può essere riassunto nell’esercizio o nell’assenza di questa parola: tolleranza. Analoghe misure e atteggiamenti di fermezza dovrebbero essere usati con i Paesi musulmani in termini di reciprocità di rapporti e di effettiva reale tolleranza anche per gli stranieri di fede diversa in visita o trapiantati fra di essi. 

         Ma non è solo l’Europa chiamata a prendere delle misure. Praticamente, le folle di emigranti sono un alleggerimento a spese altrui di situazioni locali altrimenti disastrose o lamentevoli. La surreale conseguenza è che Paesi molto spesso dilaniati da tensioni e conflitti interni e che regolarmente non brillano per la loro tolleranza, continuano a godere di un riconoscimento giuridico e molti di essi sono in fondo lasciati in pace. Detto in altre parole, c’è chi si è affannato ad infliggere sanzioni a Russia e Iran, ma nessuno ha recentemente inflitto sanzioni a Paesi come l’Afganistan, la Siria, la Libia o tutti i Paesi a ridosso del Sahara da cui provengono le moltitudini. I singoli individui potranno emigrare per cercare un futuro migliore, ma le moltitudini fuggono prima di tutto da conflitti, bombardamenti, attacchi suicidi, maltrattamenti, vessazioni e quant’altro. Fuggono insomma da un disordine a cui nessuno pare aver sul serio intenzione di porre rimedio. A questo riguardo, il supposto rimedio che si vorrebbe porre in Siria, ricorda quello (poi sgretolatosi per strada) che si volle porre in Libia, eliminando il pittoresco Colonello Gheddafi. Gli eventuali successori o eredi di Assad devono ancora dimostrare di essere dalla parte della tolleranza.

         In realtà, sarebbe tempo che i Paesi musulmani mostrino con i fatti la loro solidarietà e ospitalità nei confronti delle folle di emigranti che, fino a quando le società islamiche continueranno ad essere rigidamente ancorate ai loro ben poco flessibili confini ideologici, rischiano di infoltire enclaves di ulteriori tensioni. In quanto alla lotta vera e propria contro il terrorismo, mentre esso va ovviamente combattuto sistematicamente e senza esitazioni, sarebbe auspicabile che tutto ciò non si traduca in ulteriori limitazioni e restrizioni degli spazi a cui ogni cittadino realmente libero ha diritto.

         Ma forse questa è solo una pia illusione.

Antonello Catani, 27.2.2016

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