L'Unione Europea ad un bivio, l'ultimo

Per secoli gli europei si sono combattuti in modi sempre più crudeli. Nel 1945 gran parte dell’Europa era una terra distrutta dai bombardamenti, e popolazioni intere uscivano da anni di sofferenze oggi inimmaginabili. Il progetto di un’unione europea nacque dal grido «Mai più guerre fra noi». Già nel 1951, con il trattato che istituì la «Comunità europea del carbone e dell’acciaio» (a quei tempi carbone e acciaio erano i motori dell’attività economica, in particolare dell’industria bellica, e la contesa per il loro controllo era stata uno dei fattori che avevano scatenato due guerre mondiali) si costruì una prima istituzione europea. Ad essa partecipavano Paesi, fra cui Francia, Italia, Germania, Belgio e Olanda, che fino a pochi anni prima si massacravano a vicenda. Via, via che si sviluppava, il processo di unione europea acquisì un altro obiettivo: dare una voce comune e quindi rafforzare il potere contrattuale di Paesi minuscoli rispetto a Usa e Unione Sovietica prima, Russia e Cina dopo, cioè dare rilevanza politica all’Europa. L'editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere dela Sera.

L'Europa o reagisce prontamente o muore!

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Christine Lagarde fa retromarcia, ma non basta

«Il Consiglio direttivo farà tutto il necessario nell’ambito del suo mandato. In particolare è disposto ad aumentare le dimensioni dei suoi programmi di acquisto di attività e ad adeguarne la composizione, per quanto necessario e per tutto il tempo necessario. Nella misura in cui alcuni limiti autoimposti ostacolassero l’azione che la Bce è tenuta a intraprendere per adempiere al suo mandato, il Consiglio direttivo prenderà in considerazione la possibilità di rivederli nella misura necessaria per rendere la sua azione proporzionata ai rischi che dobbiamo affrontare». Il commento di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera.

La Bce non basta, gli Stati debbono mutare strategia

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L’esempio in Europa

A qualunque costo! Che cosa sarebbe accaduto all’euro se nel luglio 2012 Mario Draghi, anziché dire che la Banca centrale europea avrebbe difeso l’euro «costi quel che costi», avesse annunciato un numero, una quantità anche immensa di acquisti di titoli pubblici? I mercati lo avrebbero messo alla prova e, speso quell’ammontare, alla Bce non sarebbero rimaste che due strade: perdere la propria reputazione e andare oltre il limite che aveva annunciato, oppure abbandonare l’euro. Qualunque strada avesse scelto, la moneta unica non ci sarebbe più. Analogo è oggi il problema di come usare il bilancio pubblico per far fronte all’epidemia del Covid-19. È sbagliato partire da un numero massimo di tagli di tasse e aumenti di spesa. Non sappiamo di quale intervento ci sarà bisogno per arginare l’effetto dell’epidemia sull’economia. Quando rallenterà la diffusione del contagio? Dovranno essere estese le zone rosse? Quanti Paesi, e quanto a lungo, proibiranno ai nostri imprenditori di viaggiare, frequentare le fiere, incontrare i clienti? Nessuno oggi lo sa. Il governo ha già annunciato misure per 3,6 miliardi di euro. Basteranno? Probabilmente no anche nelle ipotesi più ottimiste. Come si può pensare che un intervento che vale lo 0,2 per cento del Pil riesca ad arginare uno choc che ha fermato interi settori, dal turismo alle fiere, e intere province? Come nell’esempio della difesa dell’euro non bisogna annunciare un numero, ma un obiettivo irrinunciabile. Innanzitutto, costi quel che costi, medici e ospedali devono essere posti in condizione di funzionare. Si chieda ai primari dei reparti di che cosa hanno bisogno e gli venga concesso nel più breve tempo possibile. I dipendenti di imprese che a causa dell’epidemia hanno visto svanire gli ordini devono essere protetti, che godano dei benefici della Cassa integrazione o no, che abbiano contratti a tempo definito o a tempo indeterminato. Idem per gli autonomi la cui attività non sia nella forma di una società a responsabilità limitata. Le tasse dovranno intanto essere rinviate nelle zone rosse e gialle, poi si vedrà. Le imprese non devono fallire a causa dell’epidemia: ciò significa ampia liquidità per far fronte alla caduta della produzione. In altre parole occorre evit"re che allo choc all’offerta, causato dall’interruzione delle catene produttive (ad esempio perché il fornitore cinese di un pezzo essenziale non produce più), si sommi uno choc alla domanda, causato dalla caduta dei consumi privati, costi quel che costi. La politica economica non è in grado di riparare uno choc all’offerta, ma di impedire che ad esso si sommi una caduta della domanda, questo sì. Gli Stati Uniti lunedì scorso hanno messo in campo la Banca centrale annunciando un taglio dei tassi di interesse. È stato un intervento contro-producente perché nessuno crede che con tassi di interesse ormai vicino a zero (o addirittura negativi nell’area dell’euro) la politica monetaria sia lo strumento da usare. Mi aspetto che a breve il presidente Trump annunci un grande programma fiscale, un intervento sulle tasse, simile nella dimensione a quello messo in campo da Barack Obama nella primavera del 2009 e che valeva quasi 5 punti di Pil. Nell’eurozona un simile intervento dovrebbe e"sere deciso dall’unione europea. Ma purtroppo siamo ancora lontani da poter attuare una politica fiscale comune. Il commissario europeo Paolo Gentiloni nell’intervista di ieri al Corriere ha fatto chiaramente intendere che Bruxelles non bloccherà interventi giustificati dalla gravità dello choc. Ma devono essere interventi realistici e mirati alla difesa e al rilancio dell’economia. Infine dovremmo ricordarci che le crisi offrono anche opportunità spesso non disponibili in tempi normali. Il piano fiscale straordinario che il governo si appresta ad annunciare dovrebbe essere accompagnato da qualche intervento strutturale. La Cassa integrazione in deroga potrebbe essere estesa stabilmente a tutti. C’è la difficoltà che alcuni lavoratori oggi non pagano il contributo che finanzia la Cassa. Si potrebbe pensare a una fase straordinaria in cui essi accedono ai benefici della Cassa anche senza avervi contribuito, seguita da un ritorno alla normalità in cui cominciano a pagare i contributi. Ma il punto che tutti hanno diritto alla Cassa potrebbe essere acquisito. Rispondere alla crisi significa non solo difendersi ma anche puntare lo sguardo più avanti. I tanti progetti di semplificazione finiti nei cassetti dei ministeri potrebbero essere resuscitati. Nelle difficoltà di queste settimane si è capito quanto sia importante poter lavorare a distanza, dalle scuole, alle università, alle imprese. Per le aziende, e non solo, questo si chiama «industria 4.0». Approfittare dell’emergenza per dare al Paese il segnale del quale ha bisogno: «Siamo pronti, a qualunque costo» a reggere alla crisi e, soprattutto, a ripartire.

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera – 5 marzo 2020

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