Tripoli, la pace (quella vera) si allontana

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Ma come sarà il Day Haftar? Prima che a Mosca o a Berlino, dove si sapeva che le conferenze di tregua sarebbero fallite, i tripolini avevano già capito che in Libia sarebbe finita come sempre. Con la solita guerra di posizione. Con le solite posizioni in guerra fra loro. Domani, sulle montagne di Bani Walid, a riunirsi e a parlare di pace ci provano i capi delle tribù: è solo un po’ d’orgoglio della volontà – il futuro della Libia si decide qui, non a casa di Putin o della Merkel! – accompagnato a un ragionevole pessimismo. Il commento di Francesco Battistini sul Corriere della Sera

Libia, la guerra infinita

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Un Paese che non sa decidere

si dichiarano ansiosi di metterci la faccia, il decisore pubblico è in realtà paralizzato da molti anni. La paura delle Procure e della Corte dei conti spinge chiunque abbia il potere di agire a soprassedere, a temporeggiare, ad aspettare che firmi un altro, a chiedere un «parere» che lo metta al riparo, in modo che la sua responsabilità si diluisca in quelle di altri dieci, per evitare di doverne rispondere un domani.

Immaginatevi la scena a Venezia, i due commissari del Mose nella notte del disastro, chiamati a decidere se «testare» il sistema, mai prima collaudato, e vedere se funziona. L’ha raccontata Francesco Battistini sul Corriere e dice tutto del problema che abbiamo: nel dubbio, hanno preferito non rischiare. Poi magari non sarebbe servito a niente, magari avrebbe pure peggiorato le cose: nessuno sa se e come funzionerà il complesso di dighe mobili che dovrebbero proteggere Venezia dall’acqua alta. Ma di certo sappiamo che quella responsabilità i due commissari non se la sono presa. E, francamente, chi l’avrebbe fatto al posto loro?

La colpa della paralisi totale della pubblica amministrazione, che è molto ben visibile nello stallo delle opere pubbliche di ogni genere, non è infatti dei singoli funzionari. La colpa è del legislatore.

Nel corso degli anni il Parlamento ha costruito una trama inestricabile di norme, spesso demagogiche, sull’onda della pressione dell’opinione pubblica. Una montagna di leggi-manifesto che ha avuto un duplice effetto: accrescere quella discrezionalità dei dirigenti che puntava invece a limitare, consentendo loro di scegliere come in un cesto di frutta la norma che preferiscono, o di non sceglierla affatto e aspettare; e d’altra parte allargare il ventaglio di presunte irregolarità e omissioni su cui la giurisdizione penale e amministrativa può indagare. Il risultato è la fuga dalla responsabilità: chi avrebbe il potere di agire, evita. Il presidente dell’aran ha detto l’altro giorno in un convegno che le sole norme per la trasparenza e l’anticorruzione impegnano il 30% del lavoro della pubblica amministrazione. Ne deriva una burocrazia addestrata all’adempimento, non all’azione, la cui principale preoccupazione è appunto adempiere ai mille atti e procedure previste, il cui mancato rispetto potrebbe un giorno condannarla, se le cose vanno male. La burocrazia in Italia è fatta dalle leggi, non dagli uomini, è un pachiderma perché si porta sulla groppa un castello di norme. E i politici non la smettono. Ogni nuovo governo, ogni nuovo partito, presenta una nuova «riforma», per farsi bello con l’elettorato, abbastanza incurante dell’effetto concreto, che dipende da regolamenti attuativi destinati di solito a non vedere mai la luce.

A tutto questo si aggiunge la confusione dei poteri che il bricolage politico-parlamentare ha creato in questi anni. Il pubblico decisore opera in un Paese per metà federalista e per metà centralista. Il pendolo oscilla di qua e di là col mutare delle ere politiche, in un continuo scambio di ruoli. Su ogni singola decisione incidono così una miriade di enti, comuni, province, regioni, provveditorati, prefetture, sovrintendenze. Per mostrare i muscoli hanno abrogato le province, solo che hanno dimenticato di abrogarne le funzioni. Così ci sono lo stesso, ma senza più fondi e senza più amministratori che ne rispondano agli elettori. Nell’anniversario della caduta del Muro di Berlino sono stato invitato in un liceo romano a parlarne ai ragazzi, splendida iniziativa. Nell’aula magna però pioveva: per l’occasione al posto del secchio avevano messo una pianta a raccogliere

l’acqua. Riparare toccherebbe alla provincia, ma da quando non ci sono più gli assessori la preside può chiamare solo un funzionario, che naturalmente aspetta di essere autorizzato alla spesa. La paralisi è tale che per evitare la matassa delle norme annodata dal legislatore si finisce con il dover concedere poteri speciali per eluderle. La disgraziata storia del Consorzio Venezia Nuova, nato proprio per fare il Mose, dimostra che il rimedio può essere molto peggiore del male.

L’impotenza dello Stato è certificata dalla flebile reazione alla drammatica emergenza di Venezia. Un super commissario al posto dei due commissari. La convocazione di un «Comitatone interministeriale per la salvaguardia di Venezia». E la previsione del premier Conte che il Mose si completerà «verosimilmente nel 2021». Questo è tutto. Più di così, onestamente, non si può annunciare. Viene il dubbio che lo Stato stesso abbia smesso di credere alla sua forza. Quando i socialisti andarono per la prima volta al governo, nel secolo scorso, pensavano di poter finalmente entrare nella «stanza dei bottoni». Poi Pietro Nenni ci entrò e scoprì che non c’erano i bottoni. Oggi, mezzo secolo dopo, non c’è neanche più la stanza. È questo il nostro problema: la scomparsa della decisione.

Antonio Polito – Corriere della Sera – 17 novembre 2019

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