Il nostro orgoglio

Parlare bene dell’Italia non è facile: per le ragioni che ogni italiano conosce da quando è nato e che fanno sì che abitualmente del nostro Paese siamo assai più pronti a deprecare i difetti che a cantare le lodi. Nella sostanza, infatti, gli italiani sono uno dei popoli meno nazionalisti (meno nazionalisti in senso forte, intendo, cioè meno boriosamente nazionalisti) che ci siano.

Nel Dna italiano è presente una notevole «xenofobia popolaresca», come la chiamava Gramsci, piuttosto che un consapevole e sviluppato spirito nazionalistico. Senza contare che una lunga storia ci ha obbligato a prendere atto della forza degli stereotipi negativi che circolano nel mondo sul nostro conto. Ai quali reagiamo, c’indigniamo, ma tutto finisce lì. Siamo abituati a essere stigmatizzati, anche perché spesso siamo noi i primi a farlo a danno di noi stessi.

L’epidemia di coronavirus è valsa a confermare l’immagine negativa che il mondo ha di noi. In più casi siamo stati additati come trampolino decisivo del contagio proveniente dalla Cina (mentre è ora sempre più chiaro, invece, che il virus ha sùbito preso a circolare inavvertito in molti luoghi del mondo).

In un’infografica la Cnn ci ha descritti addirittura come il focolaio originario della malattia, mentre un canale televisivo francese ha ironizzato pesantemente sul contagio mostrando un pizzaiolo italiano starnutire su una pizza appena sfornata. Anche le nostre radicali misure di prevenzione (peraltro poi via via imitate da molti altri Paesi) sono state interpretate non come il piglio saggiamente deciso con cui affrontavamo la malattia ma come la prova dell’estensione straordinaria che essa aveva nella Penisola, un luogo da cui notoriamente non ci si può aspettare niente di buono. Ma è proprio in circostanze come queste — quando le cose ci vanno male e anche l’ostilità del mondo sembra che non ci risparmi —, è proprio in circostanze come questa, se non m’inganno, che in molti di noi scatta un sentimento d’identificazione con il nostro Paese fino a quel momento nascosto. Patriottismo è una parola grande e impegnativa. È qualcosa di diverso. È il sentimento oscuro di appartenere ad una medesima storia la quale anche a dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme, non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia. È accorgersi che anche se siamo di Lecce in fondo consideriamo quello che accade a Bergamo come qualcosa che ci riguarda, che anche se tifiamo per il Verona non è per niente vero, alla fine, che vorremmo vedere Napoli inghiottita dal Vesuvio. È il sentimento insomma che oggi abbiamo di dividere una sorte comune. Non perché siamo diventati misteriosamente diversi da come eravamo prima dell’epidemia, ma perché il pericolo che oggi ci avvolge tutti fa venir fuori una parte profonda di noi che in precedenza non si faceva sentire. 

Una parte di noi costruita da memorie ed emozioni sepolte: un incontro con un gruppo di persone che parlavano la nostra stessa lingua in attesa come noi nell’aeroporto di un Paese lontano, i colori intravisti di una bandiera, il suono di una musica familiare così nostra. 

Accade anche qualcos’altro nell’Italia malata. Accade ad esempio che, è vero, siamo sempre d’accordo con le critiche mosse da tutte le parti a come funziona o meglio non funziona il nostro Paese, con le critiche alla sua burocrazia, alla sua disorganizzazione, alla sua classe politica, così come alla sua società afflitta da mille difetti. L’ho detto all’inizio: la vocazione nazionalista non ci appartiene. Ma se questo accade, accade pure che proprio in una situazione come quella di questi giorni, in cui ci sembra che il Paese sia con le spalle al muro, che tutto sembri confermare i giudizi sconfortanti che noi per primi siamo soliti dare di esso, accade che proprio in una situazione simile avvertiamo però, dentro di noi, nascere un pensiero diverso, un sentimento di orgoglio che non sospettavamo di avere. Non è tanto facile ammazzare l’Italia, ci dice quel sentimento. Non è mai stato facile. Paragonata a tanti altri Paesi, l’Italia è un piccolo lembo di terra, povera, senz’alcuna risorsa, ma bene o male da duemilacinquecento anni quell’Italia riesce a stare sul palcoscenico della storia, da duemilacinquecento anni il suo nome non è mai scomparso nel mondo. In virtù delle molteplici e multiformi qualità dei suoi abitanti, di qualcosa che è intima parte del suo «genio» (bisognerà pure essere liberi di usare parole importanti per dire cose importanti) essa ha sempre avuto qualcosa da dire o da dare. E continua ancora oggi. Ancora oggi siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e necessari o semplicemente belli, che esportiamo dappertutto. Così come negli studi, nella ricerca, nelle scienze, non sono poche le conoscenze che portano un nome italiano, e voci, immagini, scritture, musiche, le quali recano in sé anch’esse tutte qualcosa dell’Italia, percorrono ancora oggi il mondo, e il più delle volte non proprio in modo insignificante. 

Questo pensiamo mentre con non comune sincerità (ben venga!) il nostro governo c’informa ogni giorno del male che cresce e che c’insidia, e di come combatterlo. Ormai sappiamo che il colpo che ne avremo sarà duro. Ma se la storia ci dice qualcosa, ci dice che resisteremo. Che potremo anche cadere, forse. Ma che dopo di sicuro ci rialzeremo.

Ernesto Galli Della Loggia - Corriere della Sera - 8 marzo 2020

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La politica estera che non c'è (più)

Perché il rango internazionale dell’Italia ha subito il tracollo drammatico di cui è testimone così evidente in queste settimane la crisi in Libia? Perché la nostra politica estera è sempre di più la politica estera di un Paese di seconda fila, al cui presidente del Consiglio negli incontri internazionali viene riservato non a caso proprio un posto del genere? Che cosa è successo che ci sta consegnando sempre di più ad una situazione di sostanziale irrilevanza?

Vi sono naturalmente cause generalissime che riguardano tutto il quadro italiano. In particolare queste tre: a) la crescente dose d’impreparazione e d’incultura della classe politica, perlopiù ignorantissima di storia e di geografia e anche perciò incapace di mettere a fuoco i nostri veri interessi nazionali; b) l’immagine perennemente debole politicamente, e quindi di non grande affidamento, di ogni governo italiano; c) e infine un’opinione pubblica disabituata da sempre a pensare la realtà vera dei rapporti internazionali, quindi oscillante di continuo tra faziosità ideologiche e fanciulleschi utopismi a sfondo buonista.

Dopo la fine della Guerra fredda e il conseguente venir meno dell’importanza che la Penisola aveva avuto per mezzo secolo in quanto frontiera dell’occidente con il blocco sovietico (da cui l’obbligatorio legame di stretta alleanza con gli Stati Uniti), non siamo stati capaci d’immaginarci alcun ruolo, alcuna priorità, alcuna linea d’azione nostri.

Dovremo puntare a stringere un rapporto significativo con gli Usa più stretto e concertato di quello attuale

In particolare non abbiamo capito che il progressivo concentrarsi del potere dell’Unione Europea nelle mani di Germania e Francia ci stava inevitabilmente sbarrando la strada verso i due teatri tradizionali della nostra politica estera. Cioè verso i Balcani — dove infatti ben presto l’influenza economico-politica e culturale tedesca si sarebbe dimostrata imbattibile — e verso l’africa — dove fin dai tempi dell’eni di Mattei la Francia era impegnata a contenderci lo spazio e a insidiare quello che avevamo già ottenuto (per esempio in Libia). E però, invece di cercare di contrastare questa deriva diciamo così oggettivamente antitaliana dell’unione a trazione franco-tedesca (in realtà con Berlino vera padrona e Parigi sua vassalla) — magari cercando di costituire un fronte mediterraneo con Spagna e Grecia eventualmente appoggiato da una Gran Bretagna memore dei suoi trascorsi in quel mare — abbiamo fatto di tutto — in omaggio al nostro cieco supereuropeismo e anche perché gravati dalle condizioni paralizzanti dei conti pubblici — per restare agganciati comunque al duo Parigi-berlino. Con il bel risultato che oggi vediamo in Libia e altrove.

In realtà, la deriva egemonica franco-tedesca nella Ue avrebbe dovuto indurci, se avessimo voluto conservare un ruolo nelle nostre tradizionali aree d’influenza almeno in Medio Oriente e in Africa (divenuta vieppiù cruciale a causa del fenomeno migratorio), a pensare per la nostra politica estera scelte innovative e coraggiose. Se non altro a pensarle, a metterle allo studio, e semmai a farne trapelare qualcosa nei modi opportuni per vedere se così fosse eventualmente possibile spingere i nostri concorrenti europei a qualche passo indietro.

Quali scelte?

È evidente che in un quadro internazionale difficile e in cui l’impiego della forza ha guadagnato prepotentemente la ribalta l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi. Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’unione europea per le ragioni dette sopra — perché l’unione europea vuol dire Francia e Germania, le quali si prefiggono innanzi tutto di tutelare i loro interessi e non i nostri — la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. È vero che muoversi in questa direzione aprirebbe per l’Italia scenari inediti e in certa misura con più di un’incognita, ma è meglio allora non fare nulla, mi chiedo, accettare la nostra emarginazione e sperare magari in un miracolo che faccia cambiare il corso delle cose? È anche vero che oggi come oggi nel teatro geografico che più c’interessa la posizione degli Stati Uniti appare ondivaga, oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: l’inevitabile rivalità-contrasto strutturale con l’espansionismo russo, un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano, una permanente, forte intesa di fondo con Israele, Paese che rappresenta sì un alleato importante e potente degli Usa e in tutta la grande area mediterranea medio-orientale è anche il solo fidato, ma è un alleato che per ben noti motivi Washington è obbligata a tenere diciamo così in ombra, sempre in qualche modo dietro le quinte.

La «presentabilità» e l’accredito di cui l’Italia invece bene o male ancora gode nell’insieme del mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede, e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’unione europea e quindi di potenziale importante sponda con Bruxelles, appaiono altrettante premesse utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più stretto e concertato di quello attuale. Un rapporto che molto probabilmente sarebbe in grado di dare alla nostra politica estera quelle possibilità di movimento nonché quell’orientamento di fondo che da tempo le mancano. E con ciò un ruolo finalmente definito e proficuo.

Una tale scelta non equivarrebbe però — è facile obiettare — ai soliti «giri di valzer»? non ci esporrebbe cioè all’accusa tante altre volte mossaci di praticare politiche per conto nostro, diverse e in un certo senso alle spalle dei nostri alleati europei? Ora mi pare che su questo punto sarebbe il caso una buona volta di chiarirsi le idee. Sono state forse scelte prese consultando qualcuno quelle (pur gravide di conseguenze) che la Francia viene facendo da anni nella crisi sirio-mediorientale o nell’africa occidentale? E chi mai ha consultato Berlino quando ad esempio ha deciso di costruire il gasdotto Nord Stream che in pratica rafforza enormemente la dipendenza energetica sua e dell’intera Europa occidentale dalla Russia di Putin?

La verità è che esiste una cosa che si chiama interesse nazionale, e finché non ci sono patti liberamente sottoscritti che esplicitamente impegnino a certi comportamenti, è inevitabile — in certo senso anche giusto — che ogni Paese si senta libero d’interpretare il suddetto interesse nel modo in cui meglio crede. Come di fatto in realtà accade: perché mai allora l’italia solamente dovrebbe fare eccezione?

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera – 23 gennaio 2020

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Il razzismo e i suoi confini

L’alternativa non è tra il razzismo e l’accoglienza. Quando si tratta di rapporti con l’«altro», con chi percepiamo come diverso perché estraneo alla collettività umana cui noi apparteniamo, l’alternativa non è tra il rifiuto aggressivo intessuto di uno sprezzante senso di superiorità da un lato, e dall’altro la disponibilità più aperta, amichevole e ospitale. C’è una terza posizione, che è poi quella istintivamente adottata dalla grande maggioranza degli esseri umani.

Ce la indica un grande antropologo, forse il più grande del Novecento, Claude Lévi-strauss — è necessario aggiungere che difficilmente lo si sarebbe potuto definire un conservatore? — in un suo testo poco noto (De près et de loin, Odile Jacob, 1988) contenente parole di straordinaria attualità che meritano di essere conosciute e meditate. Specialmente in un momento come l’attuale in cui nella società italiana le tensioni di vario genere causate dall’immigrazione stanno accendendo intorno a questi temi un aspro dibattito pubblico nel quale si sprecano le accuse e le strumentalizzazioni politiche.

Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla» sulla base di una presunta gerarchia qualitativa dei rispettivi patrimoni genetici. Questo è il razzismo: che, come è ovvio, si accompagna inevitabilmente alla negazione all’altro degli stessi diritti di cui godiamo noi.

I nvece, aggiunge subito dopo Lévi-strauss, «che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita. È un dato normale dei comportamenti umani». E fa un esempio che lo riguarda personalmente: se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale un moto di simpatia e d’interesse, e il fatto si produce, ammette senza problemi, sulla base della loro semplice apparenza fisica, del loro puro modo di comportarsi nonché della conoscenza della loro lingua. «Nella vita quotidiana, conclude, tutti ci comportiamo così per situare uno sconosciuto sulla carta geografica. (.…) Sarebbe davvero il culmine dell’ipocrisia pretendere di vietare questo genere di approssimazione»: (...) «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista».

Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa. Così come è un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all’autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all’immigrazione, ad esempio), bensì quando s’invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono.

Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. Se si è nati in questa parte del mondo, ad esempio, può capitare di essere un ateo a diciotto carati, infatti, perfino un mangiapreti, ma nel momento in cui si vede la cattedrale di Notre-dame andare a fuoco, avvertire comunque un sentimento misterioso di tristezza e di angoscia, di perdita di qualcosa che ci riguarda profondamente.

Proprio per questo la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate. È questa la strada che in Italia troppo spesso imbocca una parte della destra quando esaspera gli animi e più o meno intenzionalmente favorisce comportamenti che mirano a negare o violare i diritti altrui, siano questi emigrati, rom, o chiunque altro. Al che però si risponde spesso dall’altra parte, dalla sinistra, in modo altrettanto esasperato e contrario, opponendo ai «bassi istinti» gli «alti principi», alla febbre identitaria un algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo. Ma applicare sconsideratamente il termine razzismo , come non manca di sottolineare esplicitamente Lévi-strauss, significa solo banalizzare il concetto, svuotarlo del suo contenuto. E così rischiare di condurre alla fine a un risultato opposto a quello desiderato.

Gerarchia

Per Lévi-strauss si tratta di «un’ostilità attiva», di una cultura verso un’altra volta a distruggerla

Aspetto irrazionale

La politica è sempre tentata di sfruttare il dato culturale identitario, che sollecita le nostre reazioni più immediate.

Ernesto Galli Della Loggia - Corriere della Sera - 11 gennaio 2020

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