I dem a guida Biden tornano in corsa per la Casa Bianca

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Ad oggi i sondaggi “nazionali” danno Biden avanti di diversi punti su Trump (circa 48-49% su 41-42%), ma il sistema elettorale è tale per cui il numero totale dei voti non è indicativo della vittoria di un candidato sull’altro, come insegna la vittoria di Trump nel 2016. Quel che al dunque decide sono i voti dei singoli Stati nel “collegio elettorale”, in particolare i risultati degli Stati che oscillano tra i due partiti. Il commento di Massimo Teodori, americanista, su Huffington Post.

Usa, a novembre lo scontro Trump-Biden per la Casa Bianca

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Ma Trump si puo' fermare

Come diceva Mark Twain è molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro, ma io ne azzardo una. Donald Trump vincerà le elezioni di novembre a meno che il partito democratico non nomini l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg.

Perché? Cominciamo dai motivi per cui Trump ha ottime possibilità di essere rieletto. Tradizionalmente il presidente uscente è avvantaggiato soprattutto quando l’economia va bene, cioè crescita alta e disoccupazione bassa. In questo senso l’economia favorisce Trump, anche deflazionando le mirabolanti descrizioni del presidente secondo cui gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una specie di Nirvana. Gli Usa non hanno avuto una recessione per 11 anni, ma di questi 11 solo tre erano con un Trump presidente. Il tasso di crescita durante la presidenza di Trump è intorno al 2,5 per cento ed è simile a quello degli ultimi anni di Obama e al di sotto di quel 3 per cento che è considerato un po’ il punto che divide crescita alta e modesta per gli Stati Uniti e che è più o meno la media della storia recente americana. Non solo, ma questi tassi di crescita sono per ora relativamente deludenti dato il forte stimolo fiscale di Trump. Siamo ben lontani dal fenomenale 6 per cento che prometteva. 

La disoccupazione è ai minimi storici al 3,6 per cento, ma già aveva un trend discendente ed era intorno al 5 per cento quando Trump è salito al governo. I salari stanno finalmente risalendo un poco, circa lo 0,4 per cento sopra l’inflazione. Il mercato azionario è esploso.

Gli aspetti meno positivi dell’economia americana sono di più lungo periodo e meno evidenti per l’elettore medio. A prescindere dalle politiche (anti)ambientali di Trump (per esempio una recente controriforma del sistema di protezione delle acque dolci del Paese) rimane il debito pubblico che continua ad aumentare. Il taglio delle imposte sulle imprese ha un senso perché erano relativamente alte. Ma a questo taglio Trump avrebbe dovuto far seguire un aumento della progressività del sistema fiscale sulle famiglie, riducendo il peso sulle classi medie chiudendo i mille canali con cui i super ricchi riescono a pagare relativamente poche tasse; oltre ad un segnale di giustizia ciò avrebbe anche stimolato di più i consumi. 

Dal lato della spesa Trump ha fatto ben poco. Il programma di assistenza medica pubblica gratuita per tutti gli anziani ricchi e poveri (Medicare) è una bomba ad orologeria per il bilancio. Nulla è stato fatto. Invece Trump sta attaccando Medicaid il programma di assistenza medica gratuita per i meno abbienti che è un problema fiscale molto inferiore. Perché? Ovvio, gli anziani votano Trump, soprattutto in alcuni stati cruciali come la Florida, i molto poveri no, i quali, anzi spesso non votano del tutto. 

C’è poi l’aumento della ineguaglianza negli Stati Uniti. Nel 1980 l’uno per cento più ricco deteneva il 10 per cento del reddito totale, oggi il doppio, circa il 20 per cento. La metà più povera deteneva sempre nel 1980 il 21 per cento del reddito totale, oggi circa il 13. È straordinario che in un Paese con un tale andamento della disuguaglianza una buona parte degli elettori continuino a favorire il partito repubblicano e che in un anno elettorale Trump stia addirittura promettendo tagli al welfare americano. I motivi sono due: uno di natura culturale/storica, l’altro contingente alle politiche attuali dei due partiti e dei candidati democratici. 

La prima ragione è che gli americani al contrario degli europei sono molto più propensi ad accettare la disuguaglianza come una necessità ed entro certi limiti la ritengono «giusta». Secondo la World Value Survey (un sondaggio d’ opinione molto prestigioso) più del 70 per cento circa degli americani ritiene che i poveri non sarebbero tali se si impegnassero di più ad uscire dalla povertà, e queste possibilità di mobilità sociale ci sono. Il numero di europei che ha queste opinioni è poco piu della metà (il 40 per cento). L’idea del «sogno americano» su cui questo Paese si è formato storicamente rimane saldamente nel cuore di molti americani anche più di quanto la realtà lo confermi oggi. Ovviamente Trump non fa che battere su questo punto, auto elogiandosi per la rinascita del «sogno». L’altra ragione deriva dalle strategie dei due partiti, vincenti quelle dei repubblicani disastrose quelle dei democratici. Il partito repubblicano ha abbracciato il culto della personalità per Trump, il quale si vendica senza pietà di chi non è d’accordo con lui. Anche l’ala del partito cosiddetta del «nord est», cioè l’ala della élite urbana, esalta un presidente che la protegge dalle temute redistribuzioni fiscali. Lo accetta anche a costo della sua mancanza di rispetto per le basi del costituzionalismo americano che sta creando precedenti assai pericolosi per la democrazia americana. 

Il partito democratico è allo sbando. Le primarie sono iniziate con una dozzina di candidati di cui una buona parte sono sconosciuti che non fanno che creare confusione. Il disastro organizzativo dell’Iowa è stato imbarazzante. Tra i veri contendenti ci sono due estremisti (per gli standard americani) Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Il primo si dichiara apertamente socialista (un «non starter» per gli Stati Uniti) ed è un ideologo stile Corbyn che con toni esaltati ed esagerati promette di tutto senza spiegare come finanziare le sue straordinarie promesse. Trump tifa apertamente per lui perché sa che se lo mangerebbe in un boccone se vincesse le primarie democratiche. La Warren ci dice invece come pagare per le sue promesse: forti tasse sulla ricchezza, e tasse sui redditi alti (ma non altissimi) fino al 75 per cento. Un programma perfettamente accettabile in Francia, ma che non la porterebbe da nessuna parte negli Usa, e infatti sta andando malissimo. (Non a caso i suoi consiglieri economici sono due professori francesi della università di Berkeley, ottimi economisti ma con poco senso della politica americana). Il candidato dei moderati doveva essere Joe Biden, ma appare sempre meno energico, (Trump lo chiama con qualche ragione «Biden il lento»). Sembra privo di idee e «vecchio» non solo nel senso anagrafico del termine ma nel senso di «vecchio establishment»; ha perso nettamente le prime gare in Iowa e New Hampshire. Buttigieg è un fuoco di paglia: dopo aver ottenuto qualche migliaio di voti in quei due piccoli Stati parla come se fosse un nuovo Obama non dicendo nulla di concreto a parte, vaghe, noiose e ripetitive promesse di «cambiamento». Prima si ritira e smette di dividere il voto moderato meglio è per lui e per il suo partito. È invece apparsa sulla scena una ottima senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar che io vedrei con molto piacere come presidente ma probabilmente non ce la farebbe da sola contro Trump. Rimane allora la meteora Bloomberg che ha scelto una strategia innovativa: ignorare le primarie iniziali dei piccoli Stati e concentrarsi su quelle dei grandi che arriveranno fra qualche settimana, facendo uso della sua ricchezza senza fondo che lo rende libero dai finanziatori. Ce la farà a vincere la nomination? Difficile da prevedere, ma le cose si cominceranno a chiarire fra meno di un mese con il super Tuesday con primarie in molti Stati grandi. Se Biden si ritirasse prima del super Tuesday dopo qualche altra delusione nelle primarie, (Nevada e South Carolina) e trasferisse i suoi voti a Bloomberg, e se quest’ultimo, Bloomberg, scegliesse relativamente presto la Klobuchar, come vicepresidente, (che è di origini umili e bilancerebbe il profilo del super ricco newyorkese) vincerebbero le primarie. 

Stravincerebbero se la Warren, quando si ritirerà, decidesse di trasferire i suoi voti a Bloomberg, dato che è vicina alle posizioni politiche di Sanders ma personalmente non lo sopporta. Tutto ciò richiederebbe nel partito democratico un minimo di coordinamento che invece non esiste. Forse una parola di Obama in questa direzione sarebbe molto utile anche per sanare i contrasti tra gli afroamericani e Bloomberg createsi quando era sindaco di New York. Insomma, credo che un ticket Bloomberg e Klochubar sia l’unico che potrebbe battere Trump e Pence.

Alberto Alesina - Corriere della Sera - 15 febbrao 2020

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Assassinio di Qasem Soleimani: perché adesso?

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      In una recente intervista a proposito dell’assassinio del generale Qasem Soleimani, numero due del regime iraniano, la candidata presidenziale americana Elizabeth Warren ha  dichiarato alla CNN: “perché adesso?”. Alla domanda del presentatore se per caso non vi sia una relazione fra la tempistica dell’azione e lo stato di impeachment del presidente, la signora Warren ha evitato di rispondere e si è limitata a  rimarcare come un’operazione simile avvicina gli USA a una guerra che nessuno desidera. Che l’operazione rappresenti un cosiddetto “dragging the dog”, e cioè, una diversione è comunque opinione diffusa fra svariati osservatori americani.

      I fatti suggeriscono come, al di là delle ragioni militari, la reale motivazione dell’accaduto sia di natura del tutto personale e costituita dal concertato tentativo del presidente di stornare l’attenzione dai guai in cui egli e in pratica tutta la sua amministrazione si ritrovano.    

      Non si tratta di fantasie. Molti dei suoi stretti collaboratori sono in galera e molti altri si sono dimessi. Non solo egli è stato sottoposto a impeachment dal congresso, ma anche collaboratori (eufemismo) come Pompeo, il Chief of staff Mulvaney e il nuovo avvocato factotum Giuliani (successore dell’ormai galeotto Michael Cohen) sono implicati nell’operazione di  ricatto dell’Ucraina - congelamento di fondi per aiuti militari - allo scopo di gettare fango su Joe Biden, ex- vice presidente sotto Obama e adesso candidato alle elezioni del 2020. Come se non bastasse, Trump è inoltre indiziato di vari reati di natura fiscale dalla procura di New York, ragione che lo ha spinto a spostare la sua residenza a Miami.

      Che Soleimani fosse l’abile architetto di una lunga serie di operazioni militari extra-territoriali e clandestine non era un segreto per nessuno, ma non sono stati proprio gli USA maestri in questo tipo di operazioni, esemplare quella della Baia dei Porci? Sta di fatto che né Bush né Obama adottarono la decisione di eliminare fisicamente il generale in modi così plateali, senza uno stato di guerra e in una nazione diversa dall’Iran. L’analogia con l’omicidio di Kashoggi per mano saudita in Turchia  è folgorante.

      Le spavalde e per così dire “bronzee” affermazioni di Mike Pompeo che Soleimani doveva essere fermato perché stava organizzando mortali operazioni a danno di cittadini americani assomiglia stranamente alle dichiarazioni dell’ex- Segretario di Stato Colin Powell all’ONU nel 2003, quando egli spergiurò che il regime di Hussein si preparava a usare armi di distruzione di massa a danno degli USA e dei suoi alleati. In realtà, le supposte armi di distruzione di massa non vennero mai trovate perché non erano mai esistite. Powell aveva spudoratamente mentito. Il risultato fu una guerra micidiale, centinaia di migliaia di morti, il rafforzarsi o il sorgere di deliranti movimenti islamici - vedi Daesh – e un Iraq tuttora disastrato e barcollante. Chi ci guadagnò fu invece la tentacolare Halliburton con un miliardario contratto di servizi all’esercito. Come noto, il vice presidente Dick Cheney era stato fino a non molto tempo prima amministratore delegato di tale società.

       Insomma, l’invasione dell’Iraq fu giustificata con una menzogna e tutto suggerisce come anche i supposti imminenti progetti delittuosi di Soleimani lo siano. Caso mai, proprio il clamoroso e verosimilmente inutile assassinio di Soleimani provocherà sanguinose ritorsioni iraniane, se non altro per salvare la faccia. Nessuno degli osservatori politici ha dubbi in proposito.

      Mentre è evidente la mancanza di una coerente strategia, l’operazione costituisce semmai un corollario dell’astiosa politica di Donald Trump – è la tipica gelosia dei parvenus affetti da narcisismo congenito - nel cercare di distruggere qualsiasi cosa Obama avesse patrocinato durante le sue presidenze, dal servizio sanitario generalizzato all’accordo nucleare con l’Iran. Contrariamente alle previsioni dei Soloni di turno, essa sta invece rafforzando il regime  (in crisi per le sanzioni economiche) cosa manifesta nel gigantesco afflusso di popolo per i funerali. Inoltre, un altro effetto è la recente risoluzione del Parlamento iracheno di espellere le forze americane dal Paese. E siamo solo all’inizio.

       Del resto, che i rischi siano superiori ai benefici immediati è stato sottolineato da vari personaggi non di parte e la cui conoscenza di cose iraniane e di Golfo Persico è fuori discussione. Tali sono state infatti le osservazioni di personaggi come Susan Rice, ex- ambasciatrice americana all’ONU, di James Stavridis, già comandante supremo alleato in Europa o di Michel Morell, ex- vicedirettore della Cia, mentre altri come il colonnello in congedo e commentatore politico Ralph Peters o il tre volte vincitore del Pulitzer, Thomas Friedman, hanno dichiarato che il vero pericolo per la democrazia e per gli USA abita alla Casa Bianca.

      Mentre nessuno sa dove, come e quando l’Iran attuerà la sua vendetta, quali saranno le possibili contro-ritorsioni americane  - la minaccia di distruzione di siti culturali iraniani è l’ultima cervellotica sparata del presidente - e gli imprevedibili sviluppi di una tensione regionale che potrebbe allargarsi, la situazione surreale è che un presidente sotto impeachment, ovvero messo in dubbio, gioca a rafforzare il suo ruolo di “Comandante in capo”, sperando così di stringere attorno a lui gli Americani. La tecnica era ben nota a personaggi come Mussolini, Hitler e Stalin.

     Così, sempre più assediato, con un senato dove già affiorano incrinature – senatrici repubblicane come Lisa Murkowsky e Susan Collins hanno dichiarato che il processo deve includere i testimoni richiesti dal Congresso, fra cui Mike Pompeo e l’ex- Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, entrambi virtualmente imbarazzanti e incriminanti per il presidente – con l’ex-alleata di ferro FOX che adesso prende sempre più le distanze, la spericolata liquidazione di un generale è diventata la carta con cui tentare di capovolgere la situazione, o meglio, imbrogliare le carte..

       Salvo che per i prudenti e per i miopi, troppi elementi di fatto indicano come quella sopra descritta, e non un'altra più sofisticata motivazione, sia alla radice di una decisione che rischia di replicare un altro disastro a spese della regione, mentre Donald Trump gioca a golf nella sua lussuosa residenza di Mar-a-Lago in Florida.

Antonello Catani, 7 gennaio 2020

 

 

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