Siamo pronti per l’“s-word”, l’indicibile socialismo? Mica tanto. Sanders, Corbyn, Castro e un azzardo tutto anglosassone

Siamo pronti per l’“s-word”, l’indicibile socialismo? E’ una domanda che ritorna su tutti i media americani, ora che Bernie Sanders, il senatore del Vermont, ha fatto slittare la corsa per le primarie democratiche tutta a sinistra, in area socialismo appunto, ma è una domanda a cui il Regno Unito, un altro paese dove la sinistra sta organizzando le sue primarie, ha già in parte risposto. Il Regno Unito, alle elezioni di dicembre, ha detto no, non siamo pronti. Jeremy Corbyn, il leader old-old Labour che voleva cambiare il “modello di business” del paese con un approccio radicalmente a sinistra, ha perso le elezioni, anzi: ha perso malissimo le elezioni. La sua proposta di rivoluzione economico-geopolitica è stata rifiutata anche dall’elettorato tradizionalmente laburista, che ha preferito votare per i Tory di Boris Johnson. Si dirà: la politica del Regno Unito è tutta sbilanciata dalla Brexit, o almeno lo era ancora a dicembre, quando si sono aperte le urne. Certo, la Brexit ha falsato molte cose, ma durante la campagna elettorale è stato proprio Corbyn a evitare di parlare di Brexit, convinto com’era che la sua offerta rivoluzionaria sarebbe stata talmente credibile da far dimenticare agli elettori la cronica ambiguità sulla Brexit. Scommessa perduta. 

Ora il Labour, proprio come il Partito democratico americano, sta cercando un nuovo leader: l’unica differenza è l’urgenza, ché a novembre ci sono le presidenziali negli Stati Uniti e invece la sinistra inglese ha (almeno) cinque anni di opposizione davanti. Ma la ricerca di un’identità che sia rappresentativa della sinistra oggi è identica. Nel Regno Unito sono state spedite via posta nelle scorse ore le schede elettorali per le primarie: i candidati sono due moderati, Keir Starmer e Lisa Nandy, e uno radicale, Rebecca LongBailey, quest’ultima sostenuta da Corbyn. Anzi, il cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, ha fatto un discorso un paio di giorni fa non soltanto per elogiare la Long-Bailey, ma anche per rilanciare la “rivoluzione corbyniana”, che non deve morire soltanto perché è stata sconfitta dai Tory. Che è come dire: nemmeno la sanzione delle urne, che è l’unica a contare davvero, riesce a eliminare – per manifesto disamore degli elettori – l’“s-word” dalle primarie britanniche. 

E’ ancora vivo il partito di chi dice che Sanders avrebbe battuto Trump, e oggi questo partito si nutre di sondaggi che mostrano che il senatore del Vermont non soltanto è il candidato più forte dentro ai democratici, ma anche quello che più degli altri potrebbe battere il presidente a novembre. Un recupero in Texas, per dire, è sufficiente? Non sembra: secondo un sondaggio Washington Post-Abc, il 37 per cento degli elettori cosiddetti indipendenti (quelli da conquistare) dice che l’ s-word finirà per non farli votare per Sanders. Perché se la proposta sanitaria – Medicare for All – va molto forte (pure se non si sa come sarà finanziato, proprio come le nazionalizzazioni previste da Corbyn), la visione del mondo di Sanders non va affatto, come dimostra la polemica in corso in queste ore per quel che Sanders ha detto su Cuba e Castro: “E’ ingiusto dire semplicisticamente che è tutto brutto” quel che riguarda il castrismo. L’“s-word” non è soltanto uno stravolgimento del modello di business, è anche una vicinanza culturale a un certo tipo di dittatura, quella vicinanza che impedisce a Sanders di rispondere “sì” alla domanda: Maduro, presidente del Venezuela, è un dittatore? Trump ci ha portati molto vicini a dittatori che non avremmo mai immaginato: la sua è sempre una scelta di convenienza, o di spettacolo (sogna la pace più clamorosa che c’è). Possibile che la sua alternativa faccia lo stesso?

In America la situazione è ribaltata: nelle urne, nel 2016, è stata l’offerta moderata (di Hillary Clinton) a essere sanzionata. 

Paola Peduzzi - Il Foglio - 26 febbraio 2020

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Londra, vergogna a punti

È uno shock di civiltà, la fine di quel mare aperto che con il tunnel ancora congiunge Folkestone e Calais, l’isola e il continente, ma da oggi li separa con il nuovo Great Wall of Shame, Grande Muro di Vergogna, che sta diventando la Brexit. Dal gennaio 2021 non si entrerà più. Il British first, che fu inventato da Theresa May ben prima di Salvini, tende a diventare il British only di Boris Johnson: basta con l’idraulico polacco e il muratore rumeno, niente più self-employed , ora l’artigiano straniero dovrà avere un lavoro salariato di almeno 25.600 sterline l’anno. Ridotte a 20.480 per gli infermieri perché il National Health Service, il sistema s anitario nazionale, ne ha bisogno.

Finisce dunque l’Inghilterra laboratorio della libertà e della civiltà occidentale dove i ragazzi d’Europa, quelli cantati da Gianna Nannini — quanti italiani! — per sessant’anni sono andati a studiare, non solo l’inglese, e a lavare piatti: mammoni e bamboccioni a Verona o Pescara e ribelli e trasgressivi a Londra, l’unico spazio d’Europa che era davvero transnazionale.

Boris Johnson ha invece stabilito che entreranno solo i professionisti qualificati, ingegneri, scienziati, medici specialisti, analisti economici ai quali sarà richiesta la buona conoscenza della lingua, ma è una barriera poco più che simbolica perché è difficile trovare ingegneri, scienziati, medici specialisti e analisti economici che non parlino l’inglese (tranne forse in Italia). Il titolo di soggiorno si otterrà con un sistema a punti come una patente dove la laurea, i dottorati, ma anche le capacità manuali e chissà cos’altro verranno valutati in una pagella che riassumerà le persone con un voto finale dopo aver schedato tutto, anche la dignità. Certamente con un occhio speciale alla cultura musulmana degli Invaders , così li chiamano, con la loro strategia del Trojan Horse , cavallo di Troia.

Ma la prima verità della Brexit a punti è che verranno colpiti i low-skilled worker . Il sindacato degli agricoltori (National Farmers’ Union) aveva chiesto per il 2021 settantamila visti per gli stagionali e si stavano mettendo d’accordo per ridurli a diecimila. Come si vede, la distanza è troppa e dunque non è ragionevole. Il governo programma numeri, fa i suoi piani, magari quinquennali come usavano i sovietici che per lo meno facevano calcoli economici, mentre Boris Jonhson, che sulla carta era un liberista, fa calcoli ideologici: vuole chiudere le frontiere e far diventare l’Inghilterra uno Stato nazionalista, sogna l’autarchia che per un’Isola, fatta di città-porti, è un’altra brutta contraddizione, geopolitica.

E non vengono colpiti solo i poveri sbandati, ma soprattutto gli studenti stranieri e i giovani in viaggio di libertà perché il soggiorno di studio e di lavoro a Londra è ancora l’educazione sentimentale, il quadro mentale del mondo che cerca il mondo fuori di sé. E difatti entravano, i nostri ragazzi, col maglione e tornavano, scombinati e ricombinati, prima con la camicia a fiori e poi, via via, l’orecchino, il piercing , il tatuaggio… Dunque viene archiviato dalla paura e, bisogna pur dirlo, da un diffuso razzismo sempre meno soft , il mito che partì dalla Swinging London della minigonna e dei Beatles, passò per la deregulation di London Calling dei Clash e di Anarchy In The UK dei Sex Pistols: tutti a fare i punk e i camerieri sotto lo sguardo altero di Margaret Thatcher. E poi mandammo i ragazzi anche nella Cool Britannia quando eravamo tutti laburisti per la Terza Via di Tony Blair.

Oggi «nella Londra senza inglesi lavorano solo gli immigrati» ripete da alcuni anni Johnson. Nel mese scorso, in un Pret a Manger, che è una delle più grandi catene di qualità di take-away , ho contato 8 nazionalità di lavoratori, tra cui Polonia, Italia, Svezia e Nepal: «Uno solo è inglese». E i giornali inglesi confermano che a Starbucks, Caffè Nero e Costa Coffee le bariste sono tutte straniere. Forse perché accettano un salario più basso? Il capo del personale ha risposto che «gli stranieri lavorano meglio e di più mentre l’inglese ha sempre mal di testa, gli muore il pesce rosso, ha la nonna malata a Liverpool… : why can’t a Brit get a job? ». I giornali raccontano che l’offerta di lavoro è aumentata di 414mila posti in un anno e l’ottanta per cento è stata assegnata agli stranieri.

E allora si capisce a poco a poco che l’Inghilterra di Johnson — un bellissimo pasticcio di origini, anche ebree e turche — sta davvero mettendo in discussione la sostanza stessa della sua storia. E una volta ottenuta la Brexit contro l’Europa, adesso vuole una Brexit contro Londra, che è stata la centrale del Remain , è governata dal sindaco musulmano Sadiq Khan, è l’aeroporto più grande del mondo, la capitale della globalizzazione, la vera città generica direbbe Koolhaas, quella con l’identità sempre in movimento. Semiparadiso fiscale, Londra è oggi la città dei miliardari che attira gli sceicchi e i campioni dello sport, la Londra delle torri di superlusso (dieci, quindici milioni di sterline un appartamento). Secondo le previsioni nel 2030 non avrà più residenti, ma solo proprietari di seconda casa.

Boris Johnson vuole ora togliere a questa Londra i ministeri, spostarli in altre città, come tentò la Lega di Bossi e Maroni quando aprì dei ridicoli pied-à-terre ministeriali a Monza.

C’è anche questo nella Brexit a punti: la nazione contro la sua grande città. Il cuore del nuovo nazional populismo è lo Stato contro le città Stato, la Spagna contro Barcellona, la Francia contro Parigi, presto l’Italia contro Milano… Anche in America non è certo a Los Angeles, a Chicago e a New York che è stato eletto Trump.

Nella Brexit a punti c’è infine la politica della paura, l’aumento degli hate crime, i crimini di odio razzista, le botte, le molestie, gli agguati, gli incendi, le minacce, gli accoltellamenti contro musulmani, africani, le aggressioni sui treni a famiglie di europei dell’Est, i calci ai russi e persino agli italiani: «Tornate da dove siete venuti» e «No more Polish Vermin ,

non più topi polacchi». Il razzismo a punti in Inghilterra, nonostante Giacomo Leopardi lo avesse segnalato nello Zibaldone come alterigia nazionalista, è un paradosso davvero indigeribile.

Francesco Merlo – la Repubblica – 20 febbraio 2020

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Casa Bianca, tregua sui dazi all'Unione Europea

  • Pubblicato in Esteri

La relativa tregua attuale della Casa Bianca sui dazi dà un po’ di respiro all’Europa, niente di più: questo resta un mondo post liberale, pieno di nuovi ostacoli agli scambi e di antiche logiche di potenza. Non è neanche più il tempo del clintoniano «it’s the economy, stupid» perché per la politica non conta più solo la crescita, anzi. Fra gli elettori della Brexit l’affermazione dell’identità viene prima del tornaconto materiale e persino l’America usa contro gli alleati la propria potenza commerciale — l’accesso al dollaro, o al mercato — come leva per piegarli politicamente. Chi fa affari con l’Iran è fuori da Wall Street. Chi compra reti di telecomunicazioni dai cinesi rischia dazi contro le auto. Il commento di Federico Fubini sul Corriere della Sera.

Trump detesta l'Europa e lo fa intendere in tutte le salse

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