Un mondo impreparato

In questo periodo di ansiose reazioni di fronte a un evento subdolo e inatteso come l’epidemia di Covid 19 il disagio non solo emotivo ma anche psicologico è palpabile. In realtà, esso appartiene a quella classe di eventi tendenzialmente rimossi dalla civiltà: quella moderna non fa eccezione. Non è un caso che epidemie come il colera o la gripe spagnola, infinitamente più micidiali del Covid 19, siano state rimosse dalla coscienza collettiva. Senza lo scoppio dell’epidemia attuale, ben pochi sarebbero ritornati col pensiero ai terribili eventi del 1918, quando una guerra insensata e la pestilenza si contesero un numero altissimo di vite (da 50 a 100 milioni).

      La verità è che un microscopico bacillo minaccia non solo la salute degli individui ma soprattutto stili di vita e modelli sociali dati per scontati. Dagli incontri sportivi ai concerti e dai viaggi al turismo gastronomico (frequentazioni di bar e ristoranti), alle sfilate di moda, alle visite ai musei e ai cinema, senza dimenticare anche le assemblee politiche e le funzioni religiose, tutto questo scenario dato per naturale e acquisito sta franando con una facilità impressionante soprattutto nei Paesi dove quegli stili e modelli sono più diffusi.

     Come le pesti di antica memoria – da quella di Atene a quella europea del XIV secolo o a quella di Londra nel 1665-1666 – un insignificante micro-organismo introduce o rivendica dunque un’anarchia che insidia equilibri quotidiani, sicurezze economiche (di alcuni), le accattivanti ed effimere illusioni della civiltà perfezionata e, con tutta la sua enigmatica animalità, umilia insomma trionfalismi di vario genere, mettendo letteralmente in ginocchio intere nazioni. Nonostante il mondo viva giornalmente un numero di gran lunga più alto di malattie inguaribili, stupri, omicidi e, a periodi, anche devastanti terremoti, tsunami e siccità, tutti questi eventi e fenomeni non sembrano scatenare un’analoga ansia e panico collettivi e tanto meno il tracollo planetario delle borse e dell’economia. L’inesorabile e incontrollabile diffusione dell’epidemia terrorizza di più dei suddetti non meno tragici fenomeni. Nell’amnesia e nel torpore generali giornalmente stimolati dalle insaziabili dipendenze consumistiche su cui si fonda la civiltà moderna e dai furbeschi pollai organizzati, chi ricordava le profetiche e lancinanti pagine del romanzo La peste di Albert Camus, apparso nel 1947? Supposto anche che esso fosse una metafora dell’epidemia bellica di qualche anno prima, i suoi scenari erano comunque un monito. Oblio…

      Ora, apparso (o ricomparso) all’improvviso, l’insidioso bacillo si diffonde con devastante rapidità e, cosa inaudita, la sua irruzione denuda le insipienze e leggerezze di un mondo sovraccarico di cellulari sempre più sofisticati ma non anche di mascherine, liquidi antisettici, guanti protettivi e ventilatori per la respirazione. Così, il surreale risultato è che anche nazioni che hanno inviato razzi nello spazio, come gli USA, scoprono adesso che non hanno maschere o altro materiale sanitario immediatamente disponibile per fronteggiare il crescendo esponenziale del contagio. Non pare illogico sospettare che, seguendo la nota filosofia del famigerato outsourcing, materiali simili facciano parte delle produzioni dislocate in altri Paesi dalla manodopera a basso costo. Astuzie che si pagano.

      Si scopre insomma che anche le nazioni teoricamente sviluppate o con giganteschi arsenali militari hanno difficoltà nell’assicurare l’assistenza medica. In altre parole, un mondo totalmente impreparato a qualcosa che pure vanta una millenaria tradizione.

     Come noto, le reazioni dei vari Stati di fronte all’epidemia sembrano essere sostanzialmente due: tentativo di arginarla e annientarla, applicando anche draconiane restrizioni di movimento dei cittadini, e, dall’altra, blande proibizioni, scommettendo su meccanismi darwiniani di sopravvivenza del più forte che dovrebbero rendere la popolazione (che sopravvive) più resistente di fronte a nuove epidemie. Quest’ultima sarebbe per il momento, salvo ripensamenti che già fanno capolino a denti stretti, la soluzione britannica al problema. Campione, il Primo Ministro britannico Boris Johnson.

      Vi è stato chi (Roberto Buffagni) ha voluto definire queste due modalità come consapevoli e deliberati "stili strategici di gestione". Secondo tale ipotesi, chi adotta la seconda modalità si attende dei vantaggi anche economici dall'ineluttabile sacrificio di una parte della popolazione e dal risparmio di risorse finanziarie altrimenti destinate ad arginare globalmente il fenomeno epidemico. Per quanto formalmente elegante, l'ipotesi pecca di cerebralità, già palese nella stessa scelta terminologica e nello scenario concettuale da essa postulato. Ahimè, da Platone a questa parte e col contributo dei filosofi tedeschi, Marx incluso, la cultura occidentale soffre di un inguaribile intellettualismo che neanche il pragmatismo anglosassone ha mitigato. Parlare di stili significa trasferire le reazioni emotivo-psicologiche sul piano estetico, abbellendolo di coerenze ed eccellenze intellettuali.

Di fatto, una simile prospettiva appare irrealistica e assai poco convincente. Fra l'altro, la classe dirigente che proclama di voler adottare l'approccio pseudo-scientifico della cosiddetta "immunità di gregge" non ha alcuna credibilità né politica né intellettuale. Essa ha dilapidato con imperdonabile e ottusa ostinazione tre anni di attività politica e di programmi nazionali, inseguendo il patetico mito di un produttivo e competitivo isolazionismo. Mai mito fu più irreale e velleitario di quello della Brexit. Gli scenari darwiniani di Boris Johnson e dei suoi consiglieri medici sono fatti della stessa stoffa degli orizzonti di quest'ultima, provengono dagli stessi umori viscerali, cosicchè, parlare di stile o di approcci strategici a loro proposito è una sorta di illusione ottica, una fuorviante metafora.

In realtà e senza scomodare i manuali bellici cinesi, come fa il già citato Buffagni, la reazione cinese o italiana di un contenimento corale e capillare del fenomeno è quella istintiva di un organismo sociale maturo, con skills e capacità tecnologiche evolute. che cerca di proteggersi. Sono ben noti i comportamenti di comunità primitive dove il gruppo si sbarazza invece dei più deboli o li lascia perire per mancanza di risorse adeguate. Il fenomeno era d'altra arte noto anche nella Grecia e Roma arcaiche, dove era assai diffuso l'infanticidio di neonati deformi o di bambine.

La soluzione che Johnson e i suoi consiglieri dichiarano di voler adottare, che rinunzierebbe a proteggere tutta la comunità, sembra insomma una sorta di arcaismo primitivo, che non solo non corrisponde al sistema socio-politico inglese così orgoglioso delle sue eccellenze democratiche e del suo progresso civile, ma suona di disinvolto cinismo, tipico dei capitani d'industria più incalliti. Come non ricordare, per esempio, la spregiudicatezza con cui la difettosa bilancia dei pagamenti inglese dei primi del XIX secolo, oberata dalla fuoriuscita di argento per l'acquisto di the indiano, trovò come compensazione l'invasione della Cina con l'oppio distribuito dai grandi taipan di Hong Kong come Jardine e simili?

Di fatto, qui non si tratta di stili. In realtà, la malavoglia britannica nel cercare di contenere il contagio allo stesso modo di paesi come Cina, Italia, Spagna e piano piano il resto del mondo è speculare alle sue viscerali pretese di isolazionismo. Come dire che il virus dell'ostinazione brexitiana riappare travestito e sotto forme ancora più pericolose.

Gli eventi attuali si prestano comunque a una lettura più ampia e in profondità di quella degli stili di gestione. Non appare infatti inappropriato e neanche un vezzo speculativo quello di interpretare lo scoppio dell'epidemia come una sorta di segnale, un avvertimento, al pari dei cambiamenti climatici in atto, come quando crisi di tosse avvertono l'ostinato fumatore che è meglio che smetta di fumare. L'amnesia con cui la società moderna sembra aver rimosso l'esistenza di una miriade di anarchici e invisibili parassiti degli organi vitali è speculare alle sue bolle emotive, alla sua generalizzata mancanza di visione che vada oltre i beni materiali e gli apparati digerente e sessuale ed è inoltre allineata alla trascuratezza mostrata verso gli insidiosi parassiti dai bilanci dei vari Stati. Un confronto fra le spese militari e quelle dedicate alle ricerche immunologiche e alle strutture ospedaliere darebbe un quadro sconsolante della leggerezza con cui il pericolo è gestito. Un esempio clamoroso è quello della chiusura del dipartimento di ricerche epidemiche, ordinata dal Presidente Trump un paio di anni fa col pretesto che era costosa... Più che lo stile, è molto spesso la più sconcertante stupidità a gestire le crisi e anche a non prevenirle. Anche di essa si muore.

Antonello Catani, 21 marzo 2020

Vedi: youtube.be/mYze9IEMg7M

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I tre problemi dell’uomo forte

I leader autoritari sono più deboli di quello che sembrano. Scrive il Sunday Times (16/2): E’universalmente riconosciuto che gli uomini forti governano il mondo”, scrive Niall Ferguson sul Sunday Times: “Sono finiti i giorni in cui l’Economist lodava Angela Merkel come ‘l’europea indispensabile’ e il Financial Times la incoronava come ‘leader del mondo libero’”. Ferguson descrive le tendenze autoritarie di molti leader contemporanei, tra cui Donald Trump, Xi Jinping, Jair Bolsonaro e Mohammad bin Salman. “In cima alle piramide autoritaria siede Vladimir Putin, che (mi è stato detto) ha un tenore di vita più sfarzoso di un imperatore romano. Ha una ricchezza inimmaginabile anche per Creso (alcuni dicono sia l’uomo più ricco del pianeta), dispone di un potere sconfinato in Russia ed è tra i più abili conoscitori di quel grande gioco che chiamiamo geopolitica. Putin è il capo dei capi… Tuttavia, essere un leader forte comporta tre problemi. Innanzitutto, più sei forte, più diventerai paranoico dato che i tuoi rivali sperano di rimpiazzarti attraverso un’oscuro complotto. Secondo, più diventi paranoico meno saranno affidabili le tue informazioni. Chi osa raccontare la verità al proprio capo? Terzo, a un certo punto rischierai di essere ucciso, dato che i tuoi nemici si sentiranno al sicuro solo quando sarai morto. Come spiega lo storico olandese Frank Dikotter nel suo nuovo libro, How to Be a Dictator, è difficile che un leader autoritario si ritiri a curare il proprio giardino. Benito Mussolini lo ha scoperto nel modo peggiore. E’ stato ucciso assieme alla sua amante Claretta Petacci, e i corpi a testa in giù sono stati appesi a una trave a Milano. Due giorni dopo, Hitler si è suicidato mentre l’Armata rossa si avvicinava al suo bunker a Berlino. Per evitare di finire anche lui appeso a una trave, il dittatore tedesco ha ordinato che il suo corpo e quello dell’amante Eva Braun fossero cremati. (Essere la fidanzata di un dittatore è anche molto pericoloso)”.

Ferguson elenca le cause di morte degli imperatori romani, dei monarchi britannici e dei sultani ottomani, molti dei quali sono stati assassinati. “Guardando agli uomini forti di oggi, possiamo concludere che quelli eletti democraticamente – come Boris Johnson e Donald Trump – sono più vulnerabili dei leader autoritari. Dopo tutto, devono essere sottoposti al giudizio degli elettori ogni quattro o cinque anni. Se fossi Boris, mi chiederei se l’aver promosso Rishi Sunak a cancelliere dello Scacchiere non ne abbia fatto inavvertitamente l’erede designato. La storia suggerisce che gran parte degli uomini forti autoritari dovrebbero morire entro la fine del decennio – e non sarà il coronavirus a ucciderli. A meno che l’epidemia di Wuhan non si riveli la Chernobyl di Xi Jinping, il che non è escluso. Dopo Maduro, che presto non avrà più una popolazione da saccheggiare, e il principe Bin Salman, i cui piani per riformare l’Arabia saudita sono destinati a fallire, Xi appare il leader più fragile. L’Economist tempo fa non lo aveva definito come ‘l’uomo più potente al mondo?’”.

Niail Ferguson - Il Foglio – 2 marzo 2020

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Siamo pronti per l’“s-word”, l’indicibile socialismo? Mica tanto. Sanders, Corbyn, Castro e un azzardo tutto anglosassone

Siamo pronti per l’“s-word”, l’indicibile socialismo? E’ una domanda che ritorna su tutti i media americani, ora che Bernie Sanders, il senatore del Vermont, ha fatto slittare la corsa per le primarie democratiche tutta a sinistra, in area socialismo appunto, ma è una domanda a cui il Regno Unito, un altro paese dove la sinistra sta organizzando le sue primarie, ha già in parte risposto. Il Regno Unito, alle elezioni di dicembre, ha detto no, non siamo pronti. Jeremy Corbyn, il leader old-old Labour che voleva cambiare il “modello di business” del paese con un approccio radicalmente a sinistra, ha perso le elezioni, anzi: ha perso malissimo le elezioni. La sua proposta di rivoluzione economico-geopolitica è stata rifiutata anche dall’elettorato tradizionalmente laburista, che ha preferito votare per i Tory di Boris Johnson. Si dirà: la politica del Regno Unito è tutta sbilanciata dalla Brexit, o almeno lo era ancora a dicembre, quando si sono aperte le urne. Certo, la Brexit ha falsato molte cose, ma durante la campagna elettorale è stato proprio Corbyn a evitare di parlare di Brexit, convinto com’era che la sua offerta rivoluzionaria sarebbe stata talmente credibile da far dimenticare agli elettori la cronica ambiguità sulla Brexit. Scommessa perduta. 

Ora il Labour, proprio come il Partito democratico americano, sta cercando un nuovo leader: l’unica differenza è l’urgenza, ché a novembre ci sono le presidenziali negli Stati Uniti e invece la sinistra inglese ha (almeno) cinque anni di opposizione davanti. Ma la ricerca di un’identità che sia rappresentativa della sinistra oggi è identica. Nel Regno Unito sono state spedite via posta nelle scorse ore le schede elettorali per le primarie: i candidati sono due moderati, Keir Starmer e Lisa Nandy, e uno radicale, Rebecca LongBailey, quest’ultima sostenuta da Corbyn. Anzi, il cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, ha fatto un discorso un paio di giorni fa non soltanto per elogiare la Long-Bailey, ma anche per rilanciare la “rivoluzione corbyniana”, che non deve morire soltanto perché è stata sconfitta dai Tory. Che è come dire: nemmeno la sanzione delle urne, che è l’unica a contare davvero, riesce a eliminare – per manifesto disamore degli elettori – l’“s-word” dalle primarie britanniche. 

E’ ancora vivo il partito di chi dice che Sanders avrebbe battuto Trump, e oggi questo partito si nutre di sondaggi che mostrano che il senatore del Vermont non soltanto è il candidato più forte dentro ai democratici, ma anche quello che più degli altri potrebbe battere il presidente a novembre. Un recupero in Texas, per dire, è sufficiente? Non sembra: secondo un sondaggio Washington Post-Abc, il 37 per cento degli elettori cosiddetti indipendenti (quelli da conquistare) dice che l’ s-word finirà per non farli votare per Sanders. Perché se la proposta sanitaria – Medicare for All – va molto forte (pure se non si sa come sarà finanziato, proprio come le nazionalizzazioni previste da Corbyn), la visione del mondo di Sanders non va affatto, come dimostra la polemica in corso in queste ore per quel che Sanders ha detto su Cuba e Castro: “E’ ingiusto dire semplicisticamente che è tutto brutto” quel che riguarda il castrismo. L’“s-word” non è soltanto uno stravolgimento del modello di business, è anche una vicinanza culturale a un certo tipo di dittatura, quella vicinanza che impedisce a Sanders di rispondere “sì” alla domanda: Maduro, presidente del Venezuela, è un dittatore? Trump ci ha portati molto vicini a dittatori che non avremmo mai immaginato: la sua è sempre una scelta di convenienza, o di spettacolo (sogna la pace più clamorosa che c’è). Possibile che la sua alternativa faccia lo stesso?

In America la situazione è ribaltata: nelle urne, nel 2016, è stata l’offerta moderata (di Hillary Clinton) a essere sanzionata. 

Paola Peduzzi - Il Foglio - 26 febbraio 2020

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