La tregua del greggio

Ieri c’è stato un incontro (in teleconferenza, per evitare contagi da coronavirus) molto atteso dell’Opec Plus, l’organizzazione che raccoglie i paesi produttori di petrolio più altri dieci paesi che non ne fanno parte ma si aggregano per decidere il prezzo e le quantità da estrarre. L’attesa era dovuta al fatto che c’è una guerra del prezzo fra sauditi e russi – entrambi spingono verso il basso il prezzo del greggio e questa è una situazione insostenibile per molti paesi – e l’incontro doveva servire ad arrivare a una tregua. In molti chiedevano un compromesso fra i due combattenti, anche perché tutti gli indicatori del mercato avvertono che c’è un disastro in arrivo: il mondo colpito dal coronavirus si è fermato e non ha bisogno più di tutto il petrolio che consumava prima. Nel momento in cui questo giornale va in stampa, l’accordo parla di un taglio di otto milioni e mezzo di barili a testa per russi e sauditi, che è qualcosa ma non è il taglio più sostanzioso che ci si aspettava e potrebbe non essere sufficiente a far rialzare il prezzo. In pratica, i depositi di greggio sono già così pieni che la produzione dovrà rallentare nei prossimi mesi perché è inutile estrarre greggio se non sai più dove stoccarlo. Il 6 marzo la Russia aveva provato a infliggere ai produttori americani di greggio un colpo devastante, ma di fatto il tentativo non ha avuto successo e ieri Mosca ha dovuto fermare la guerra dei prezzi che andava avanti da un mese. Andiamo con ordine. L’attacco russo ai produttori americani non era un colpo diretto, ma un colpo di sponda e funzionava in questo modo: i russi rompono l’accordo con i sauditi che teneva più o meno alto il prezzo del greggio, allora i sauditi cominciano a mettere sul mercato tantissimo petrolio (perché se il prezzo è basso devono guadagnare con la quantità) e questo fa scendere ancora di più il prezzo del greggio, che infatti è arrivato attorno ai venti dollari. I produttori americani di petrolio guadagnano dal loro lavoro soltanto quando il prezzo del petrolio è superiore a quota cinquanta dollari al barile, perché sono costretti a usare una tecnica che si chiama fracking e permette loro di estrarre greggio dai grandi depositi di rocce bituminose presenti in America – lo shale oil. Quando russi e sauditi hanno cominciato la guerra al ribasso, le grandi compagnie americane che guadagnavano con lo shale oil si sono trovate di colpo fuori mercato. Per loro è impossibile lavorare a questi prezzi. I russi hanno scatenato questo attacco quando hanno visto che il prezzo del greggio stava calando a causa del rallentamento dell’economia mondiale dovuto all’epidemia in Cina. Se la Cina ha bisogno di meno petrolio, il prezzo scende. Hanno pensato: è il momento buono per rompere l’accordo con i sauditi, far scendere il prezzo ancora di più e mettere fuori gioco gli americani. A dicembre l’Amministrazione Trump con le sanzioni ha bloccato di fatto la costruzione del tratto finale del gasdotto North Stream 2 – proprio all’ultimo, stava per entrare in funzione – e la Russia non vedeva l’ora di infliggere una rappresaglia al settore Energia americano. I prezzi così bassi in realtà non piacciono nemmeno ai russi, che per far funzionare la macchina statale e l’economia del paese hanno bisogno che il prezzo del greggio resti sopra ai 40 dollari al barile. Si possono permettere di andare un po’ in perdita per il gusto di far saltare il sistema americano, ma non troppo a lungo. Il problema per Putin è che la crisi coronavirus che aveva creato l’occasione per punire gli americani si è trasformata in una pandemia ed è diventata troppo grande per continuare a giocare con il prezzo del greggio. La Russia è in crisi, molto più di quanto si potesse prevedere un mese fa, e ha bisogno di entrate certe per salvare l’economia nazionale. Dalla tregua con l’Opec e con i sauditi vuole almeno ottenere, però, che anche gli americani annuncino tagli. La seconda parte di questi negoziati si svolgerà oggi, al G20 dei ministri dell’Energia.

Daniele Raineri – Il Foglio – 10 aprile 2020

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