Affarismi politici e demografia
- Scritto da Antonello Catani
Nell’aprile del 1939 i tre multiformi fratelli Korda, di origine ungherese ma naturalizzati inglesi, produssero forse l’ultima e più mirabile celebrazione cinematografica (ma non solo) dell’Impero britannico. Era l’affascinante The four feathers (Le quattro piume), esemplare storia di viltà e di epica redenzione nello sfondo esotico del Nilo e della riconquista del Sudan ad opera di Kitchener, il Sirdar o comandante in capo dell’esercito egiziano. Se gli interpreti - fra cui Ralph Richardson e la bellissima June Duprez - furono all’altezza del compito, una parte poco sovrastimabile della suggestione del film spettava all’inimitabile musica di James Horner. Scenografia, studi psicologici e modelli di comportamento evocavano la quintessenza dell’orgoglio e della tradizione britanniche nel momento del loro massimo fulgore.
Di lì a pochi mesi Hitler avrebbe invaso la Polonia, e il futuro del mondo, incluso quello dell’Impero britannico sarebbe irrimediabilmente cambiato. Come noto - anche se ancora non a tutti gli Inglesi - paradossalmente, la Gran Bretagna vinse la guerra e perse il suo Impero.
Nello stesso anno, la popolazione dell’Egitto ammontava a poco più di 16 milioni di individui. Aggiungiamo che quella degli Stati Uniti ammontava a 132 milioni e quella della Cina a circa 500.
I suddetti elementi, apparentemente slegati fra loro e di scarsa rilevanza attuale forniscono al contrario uno scenario utile per intendere certi recenti sviluppi riguardanti il Brexit e l’astioso ultimatum verso il Qatar da parte di alcuni Stati arabi, fra cui l’Egitto. Li accomuna una curiosa miopia, l’ignoranza e le tipiche arroganze e convenienze del potere.
Incominciamo dal Brexit.
Gli ostinati promotori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea hanno in media un’età matura ed è anche possibile che siano estimatori del citato film o comunque succubi di una visione del mondo da splendido isolamento, coerente con i trascorsi allori dell’Impero britannico ma disarmata rispetto alla fragilità e instabilità politica che proprio il Brexit ha imprevedibilmente scatenato. In un certo senso, il vero significato e merito di quest’ultimo è quello di aver messo allo scoperto profondi dissensi e fratture identitarie nella società britannica. Sono di questi giorni nuove divergenze di vedute anche all’interno del governo, fra le posizioni più rigide del negoziatore ufficiale britannico Davis e quelle più sfumate e graduali del Cancelliere dello Scacchiere Hammond (il Ministro delle finanze).
La pervicacia del Primo Ministro (nel salvaguardare la sua poltrona) si è tradotta in un ulteriore degrado del livello attuale della politica britannica: in pratica, un letterale acquisto di voti. Pur di arrivare a una maggioranza di governo, l’adesione dell’ultra conservatore Partito Unionista Democratico nord-irlandese (DUP) è stata assicurata tramite la concessione di fondi straordinari pari alla modica somma di un miliardo di sterline. La furberia di tale affaristica manovra si commenta da sé ed è comunque destinata ad avere le gambe corte, visto che in tal modo saranno stimolati i giustificati appetiti di Scozia e Galles.
Mentre quindi la strategia gestionale del governo sembra poggiare su stabilità a dir poco volatili, i primi contatti con Bruxelles mostrano che nulla è chiaro per quanto riguarda sia il reciproco trattamento degli espatriati europei e britannici sia quello degli istituti finanziari e delle aziende operanti in Gran Bretagna che fino ad oggi godono di benefici e reciprocità tariffarie e fiscali. Interrogato in proposito, il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Junker, ha dichiarato di non aver ancora capito cosa vuole Londra.
In realtà, proprio l’imprevedibile alleato nord-irlandese sottolinea l’avventurismo politico del Primo Ministro britannico e richiama un ulteriore paradosso, questa volta assai più profondo. Il partito unionista irlandese è un partito politico protestante ed è stato il più convinto assertore dell’unione con la Gran Bretagna. D’altra parte, circa l’80% degli Irlandesi, che sono in prevalenza cattolici, è invece un tenace sostenitore dell’UE. Come dire che, per racimolare una maggioranza ipoteticamente in grado di gestire in modo più efficace i negoziati di uscita dall’Unione Europea, il governo ha scelto un alleato sotto vari aspetti ospite sopportato o comunque marginale di un’isola, l’Irlanda, che invece di uscire dall’UE non ne vuol sapere.
La disinvoltura a volte non conosce limiti.
Il paradosso aumenta, a un livello più profondo, perché proprio gli Irlandesi assieme agli Scozzesi, entrambi pro-UE, sono forse fra gli abitanti che possono vantare l’insediamento più antico nelle isole Britanniche, invase a più riprese da altre popolazioni che, come i Celti, venivano anch’esse dall’Europa (Angli, Sassoni, Normanni, etc.). Insomma, se ci spostiamo indietro nel tempo, scopriamo che, anche senza la futura UE, il comune denominatore etnico aveva un cuore europeo…Se poi ci spostiamo ancora più indietro di qualche altro millennio, scopriamo che almeno forse fino all’8.000 a. C., al posto della Manica vi era una tundra e che dunque, prima di un gigantesco sollevamento del livello del mare, la Gran Bretagna era semplicemente una penisola europea!
Insomma, il responsabile dei tradizionali isolazionismi britannici sembra essere stata l’innocente Manica, ma i responsabili odierni sono piuttosto la miopia e la demagogia.
Questi rapidi accenni al Brexit volevano solo mettere in risalto che il tramonto dell’Impero britannico è un processo non ancora del tutto liquidato, almeno a livello psicologico, e che esso ha stimolato o svelato un’imprevedibile e sottovalutato conflitto identitario nella coscienza collettiva degli Inglesi. Perché, di fatto, questo è il vero problema del Brexit.
Ora, ciò che distingue l’uomo politico dall’amministratore è che il primo deve andare oltre la routine e le convenienze del momento e avere criteri temporali più ampi. Ciò che a sua volta distingue l’uomo politico mediocre da quello di genio è che quest’ultimo riesce ad avere una visione che superi gli angusti confini nazionali e persegua disegni di più vasto respiro, senza avventurismi, demagogie e velleità.
E ciò che ci si attenderebbe dagli attuali statisti britannici, che hanno alle spalle una gloriosa tradizione, ma per il momento non pare prendere forma.
Sempre per richiamarci al film di Zoltan Korda, dovremo adesso cercare di capire cosa c’entrino il Qatar e in particolare l’Egitto attuale.
Le recenti mosse diplomatiche ispirate e coordinate dall’Arabia Saudita nei confronti del Qatar assomigliano a un balletto dove il dejà vu si mescola nuovamente alla faccia tosta da una parte e alla miopia dall’altra. Per quanto poco ricordato, già prima della seconda guerra mondiale ha agito nella Penisola Araba un espansionismo o un tentativo di espansionismo a scapito dei territori meridionali, e cioè, lo Yemen, conosciuto dagli antichi viaggiatori come Arabia Felix. Ma erano tempi in cui il petrolio non faceva ancora affluire ricchezze inaudite nei forzieri dell’Arabia Saudita (cioè, la famiglia reale saudita). Da allora le cose sono cambiate e la Monarchia Saudita è fra i maggiori acquirenti d’armi del mondo intero.
Che se ne faccia e da chi debba difendersi è non è ben chiaro. Rimane comunque il fatto che una parte di tali armamenti viene adesso utilizzata per bombardare proprio lo Yemen, dove non a caso uno dei contendenti dell’attuale faida in corso è di fede sciita e gode del sostegno della Siria e dell’Iran. L’ultimatum al Qatar, i cui toni perentori ricordano certe comunicazioni tedesche del periodo immediatamente precedente la seconda guerra mondiale, è dunque solo un ulteriore episodio di una strisciante lotta per interposta persona con l’Iran, che riunisce in un incestuoso abbraccio la democratica America e il ben poco democratico regime saudita. Ovviamente, la lotta non è solo fra due confessioni islamiche ma soprattutto fra due antagonismi egemonici. Stupisce come media e opinione pubblica siano rimasti sostanzialmente indifferenti a questa lotta, che è la vera causa del caos siriano, di cui il Presidente Assad è diventato l’unico e comodo capro espiatorio.
Mentre neanche l’Iran è un paradiso di democrazia e anche lì abbondano zelanti protettori della fede, la differenza con i regimi della Penisola Araba è che perlomeno esso non è governato da consorterie famigliari e ha alle sue spalle una millenaria tradizione politica e culturale. L’altra enorme differenza è che a quanto pare possiede anche cospicue capacità tecnologiche tipo la ricerca atomica – capacità assenti fra gli sceicchi, che sono rimasti acquirenti passivi di tutti i beni di cui si circondano - ed è questa la vera ragione dell’ostilità americana. Il tempo dirà se l’incondizionato appoggio di Washington a Riad, anche recentemente ribadito dal presidente Trump, è una decisione innocua o invece promotrice di ulteriori destabilizzazioni nella regione.
Se questo è a grandi linee il parziale scenario dei conflitti in corso nella Penisola Araba, è legittima la domanda: cosa c’entra l’Egitto richiamato all’inizio di queste pagine? Perchè partecipa al coro? In realtà, esistono analogie significative.
Intanto, anche in mancanza di dati puntuali, è noto che per anni vari Stati della penisola araba, inclusa l’Arabia Saudita, hanno offerto massicci aiuti all’Egitto. D’altra parte, la mancata cessione ai Sauditi di alcune isole egiziane nel mar Rosso e la recalcitranza del presidente Sisi nell’appoggiare militarmente l’Arabia Saudita in Yemen hanno raffreddato e parzialmente congelato il rubinetto degli aiuti. La partecipazione nel boicottaggio al Qatar appare come un modo disimpegnato di non perdere del tutto degli amici e protettori e, soprattutto, i loro aiuti economici.
Il parallelo, sia pure rovesciato, con gli eventi inglesi è irresistibile. Come al solito, sembra che i problemi politici siano risolti o risolvibili con transazioni d’affari. Ciò farebbe parte degli obiettivi del famigerato amministratore sopra richiamato. Ma vi è un piccolo dettaglio. Nel 2016 la popolazione complessiva dell’Arabia Saudita era di circa 32 milioni di individui, di cui circa 10 non Sauditi (stime Nazioni Unite). Ancora fino alla fine degli anni 40, tuttavia, quando non vi erano i vari immigrati arabi o asiatici, la popolazione non superava i 4 milioni. Per sua fortuna, nonostante il tasso annuale di fertilità sia del 2,8 (ma era del 7,18 nel 1955), l’Arabia Saudita nuota nel petrolio e può per il momento sfamare la sua popolazione e continuare le sue gigantesche importazioni di beni di lusso e di materiale militare. Vale la pena di osservare come anche la popolazione USA e quella cinese siano aumentate rispetto al 1939: rispettivamente, 322 milioni d’individui e un miliardo e 371 milioni nel 2015. Solo che anche questi due paesi godono di risorse imponenti e, fra l’altro, la Cina ha perseguito una rigida politica demografica.
L’Egitto invece non nuota nel petrolio, la sua superficie coltivabile e le sue risorse naturali sono sempre le stesse, mentre i 16 milioni del 1939 sono diventati 90 milioni nel 2006 (Dati Cia (World Factbook 2006). La sua popolazione è insomma aumentata di ben 5 volte.
Mentre dunque l’attuale governo britannico sembra sottovalutare i benefici e gli imperativi di una forte Unione Europea e pensa di risolvere meglio i suoi problemi comprando dei voti, allo stesso modo i governanti egiziani sottovalutano il reale problema dell’Egitto e si barcamenano con la routine dei sussidi economici.
Gli uni danno, e i secondi ricevono.
Mentre appare sempre più chiaro che il problema della Gran Bretagna e delle nazioni che la costituiscono è un problema identitario, è altrettanto evidente che il vero problema dell’Egitto è quello demografico, pateticamente dimenticato anche dai tradizionalisti islamici della Fratellanza Musulmana, oggi messi provvidenzialmente al bando. Ironicamente, le posizioni cristiane e islamiche conservatrici al riguardo sembrano coincidere: “Crescete e moltiplicatevi”. Ma le risorse del pianeta, allo stesso modo della superficie dell’Egitto, non crescono parallelamente alla moltiplicazione in questione. Nonostante certe ambigue aperture di Papa Francesco nei confronti della contraccezione, in realtà le fasce più conservatrici e tradizionaliste della gerarchia continuano a considerare immorale il controllo delle nascite allo stesso modo dei dottori musulmani. Evidentemente, entrambi hanno poca dimestichezza con i dati statistici o, meglio ancora, un’irresponsabile indifferenza nei loro confronti e verso l’agghiacciante aumento della popolazione mondiale negli ultimi cento anni, in particolare nei paesi meno sviluppati.
Il mondo evocato in The four feathers era insomma più rassicurante e meno conflittuale, se non altro perché meno affollato.
Antonello Catani, Atene, 3 luglio 2017