Presidenziali Usa, Bloomberg irrita gli altri candidati dem

Nel dibattito televisivo dello scorso 19 febbraio, a Las Vegas, i candidati democratici, radical e moderati, si sono trovati d’accordo almeno su una cosa: fare a pezzi (politicamente sia chiaro) il debuttante Michael Bloomberg. Elizabeth Warren ha tirato fuori le denunce di abusi sessuali e di discriminazioni presentate negli anni scorsi da diverse donne impiegate nel gruppo editoriale del miliardario newyorkese. Bernie Sanders gli ha dato del corrotto e dell’evasore fiscale. Joe Biden, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar lo hanno accusato di voler comprare le elezioni. Curioso. Viene da chiedersi se «questo» Bloomberg fosse lo stesso imprenditore che solo due anni fa, nelle elezioni di midterm del 2018, aveva sborsato 42 milioni di dollari per sostenere 24 democratici, uomini e donne in lizza per un seggio alla House of Representatives. Un intervento pesante e probabilmente decisivo, visto che su 24 gare, i progressisti ne hanno vinte 22: dodici in distretti tradizionalmente repubblicani.

Oggi il partito di Biden, Warren e compagnia ha la maggioranza alla Camera con 232 seggi. Senza i soldi di Bloomberg sarebbero sicuramente meno, forse al di sotto della soglia di maggioranza, pari a 218. Potremmo sbagliare, ma in archivio non abbiamo trovato alcuna scomunica. Il gruppo dirigente del partito, anzi, accettò volentieri i dollari dell’ex sindaco di New York, per altro una delle star nella Convention di Philadelphia che nel luglio del 2016 assegnò la nomination a Hillary Clinton. D’accordo, è la logica della politica, specie quella americana, si dirà. E allora siamo proprio curiosi di vedere che cosa succederà se, come è possibile, Bloomberg venisse sconfitto alle primarie. Il miliardario ha già detto che finanzierà la campagna contro Donald Trump. Sanders, Buttigieg, Biden o chi per loro, rifiuteranno sdegnati? O Bloomberg tornerà quello del 2018, il ricco buono e coscienzioso?

Giuseppe Sarcina – Corriere della Sera – 22 febbraio 2020

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C'erano gli Stati Uniti amici dell'Europa. C'erano...

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Michael Bloomberg ha rievocato, nelle frasi che ha pronunciato a Norfolk, in Virginia, le origini di questa epoca. E questo gli è stato utile. Ha ricordato che, nell’estate del 1941, in un momento in cui la Guerra Mondiale stava andando male, se non peggio, Franklin D. Roosevelt incontrò Winston Churchill su una nave della marina al largo della costa del Newfoundland. L’America manteneva una posizione palesemente neutrale. Ma Roosevelt e Churchill condividevano l’aspettativa che, nel giro di poco, (nel dicembre di quell’anno, come poi avvenne) l’America avrebbe preso il suo posto tra i combattenti. L’intervento americano avrebbe, come era probabile, spostato l’equilibrio della guerra. Roosevelt e Churchill colsero l’occasione per stabilire una questione di principio. Il commento di Paul Berman su Linkiesta. 

Amarcord per gli Usa di oggi, con Trump tutto è cambiato

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Il consigliere lampo di Obama darà una mano a Bloomberg

“Il governo mi sembra generalmente fermo”, Matteo Renzi si lascia sfuggire scarne parole mentre stringe le mani a manager e banker accorsi in un hotel romano per ascoltare Anthony Scaramucci, il consigliere più breve nella storia della Casa Bianca. Dal 21 al 31 luglio 2017: un lasso di tempo fulmineo, come nello stile di Donald Trump. Per prima cosa, gli chiediamo se aver battuto il record di undici giorni, tanto durò la permanenza di Jack Koehler ai tempi dell’amministrazione Reagan, sia una medaglia. “Francamente pensavo che sarei durato più di un cartone del latte – risponde lui con inusitata sincerità – Ho subìto un’umiliazione cocente, la mia faccia era su giornali e tv di tutto il mondo, ero un uomo finito ma proprio in quell’istante ho deciso di riprendere in mano la mia vita”. 

Per i circoli di Washington questo finanziere 56enne, esperto di hedge fund, è l’ex direttore della comunicazione della White House, già fundraiser di Trump (e, prima ancora, di Barack Obama), repentinamente rimosso dall’incarico dopo una controversa telefonata a un giornalista del New Yorker. “Con Obama avevamo studiato insieme ad Harvard, mi sembrava giusto aiutarlo – prosegue Scaramucci – Sebbene io sia da sempre un repubblicano, adesso la situazione è talmente compromessa che mi toccherà sostenere un democratico. Mai tipi come Sanders e Warren, troppo estremisti. Con ogni probabilità darò una mano a Michael Bloomberg”. 

Il pallino della politica le è rimasto. “Ho avuto una traiettoria politica accidentata. Trump poteva fare grandi cose, invece si è rivelato un presidente fuorilegge che si comporta come un bullo e crede di poter controllare tutti con il ricatto. Ci ha provato anche con me tirando in ballo pubblicamente mia moglie con la quale attraversavo un periodo di crisi matrimoniale. Ma io non mi sono lasciato intimidire”. 

Trump le ha dato il benservito senza tanti complimenti. “Da noi si dice che il popolo è il boss, il presidente è un servitore. Con Trump lo schema si è ribaltato: lui ritiene di poter violare la legge senza colpo ferire”. L’assoluzione nella procedura di impeachment lo ha ringalluzzito. “Il Gao (Government Accountability Office, organismo bipartisan del Congresso, ndr) ha determinato che Trump ha violato la legge paralizzando gli aiuti militari all’Ucraina nel luglio 2019. Questo è un fatto, destinato ad avere conseguenze nei prossimi mesi. Al voto mancano 270 giorni, un’eternità nella politica americana. Trump potrebbe ritrovarsi al centro di nuovi scandali. Per esempio, non è chiaro in cambio di cosa egli abbia deciso, in accordo con il presidente turco, di voltare le spalle ai curdi in Siria”. 

Le sue sono insinuazioni. “Dico che nei prossimi mesi potrebbero fuoriuscire nuove informazioni su Trump”. I risultati economici lo premiano. “In generale, l’economia risente degli effetti benefici delle politiche obamiane che hanno stimolato la crescita creando poco deficit, a differenza di Trump che spende e spande. Io prevedo una sfida al fotofinish con Bloomberg che ha dispiegato solo in parte la sua potenza di fuoco”. 

Lei, figlio di un operaio edile, incarna il sogno americano. “E’ vero: quando mia nonna, originaria della provincia avellinese, emigrò a Brooklyn negli anni Venti, non possedeva il becco di un quattrino. Lei mi ha insegnato che nella vita serve sense of humour e che ciò che la gente dice di te non ti riguarda. Lei è per molti versi la mia eroina”. Anche Trump è a capo di una ricchezza ingente. “E’ stato suo padre Fred a creare un universo immobiliare: lui ha ereditato, con i suoi fratelli, una fortuna da 400 milioni di dollari”. 

In Italia la Lega di Matteo Salvini è il primo partito. “Lui non lo conosco ma mi sembra che non abbia ancora assunto i tratti di un uomo di stato. E’ diverso da Johnson, catalizza molta rabbia ma non ha ricette di governo all’altezza. Quelli come lui non comprendono che la volatilità è un grosso guaio per tutti e che certe uscite destabilizzano i mercati finanziari con ricadute tangibili sui risparmi delle persone. Dopodiché in politica si attraversano molte vite...”. Lei ha lanciato la piattaforma Salt che crea ponti tra finanza, geopolitica e tecnologia. “Mettiamo in connessione investitori, manager ed esperti politici per far comunicare capitale intellettuale e di investimento. Al nostro evento annuale a Las Vegas, che dura tre giorni, partecipano oltre duemila persone”.

La Brexit riporta in auge la special relationship tra Usa e Regno Unito? “Boris Johnson è un premier smart, pragmatico, parla di infrastrutture e sanità, sa leggere in greco antico. L’ho incontrato una sola volta, ai tempi del transition team di Trump. Oggi il sistema è bloccato da una trappola della liquidità: le banche centrali, costrette a tenere i tassi di interesse molto bassi, non sono in grado di sostenere i ceti medi e popolari. Ciò genera ansia e preoccupazione, ed è carburante per i populisti”. 

La sfida del XXI secolo è tra Usa e Cina: secondo lei, possiamo fidarci di Pechino? “Nutro rispetto per il governo e per i business leader cinesi”. Perché lei fa affari con loro. “E’ vero ma la xenofobia è sempre sbagliata. Ciononostante, mi preoccupa Huawei: tutti gli esperti con cui mi sono confrontato confermano che i paesi occidentali non possono fidarsi di una infrastruttura 5G fornita dai cinesi”. Il Copasir italiano ha assunto una posizione identica a quella dell’Amministrazione Trump: security comes first. “Esatto. Da noi lo stato e il privato sono separati, in Cina non è così. Sarebbe ingenuo pensare che i cinesi non puntino alla supremazia in ogni campo. Dobbiamo cogliere le opportunità della cooperazione con loro senza mai abbassare la guardia. Restando con gli occhi ben aperti”.

Annalisa Chirico - Il Foglio - 10 febbraio 2020

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