Una battaglia che non si vince senza l’Europa

Un lavoratore su due in Italia oggi è fermo e chiede aiuto, che si tratti della Cassa integrazione, dei 600 euro previsti per gli autonomi o di altre forme di sostegno. Il conto della crisi economica da coronavirus ridotto all’essenziale e proprio per questo ancora più impressionante - è questo. È l’altra faccia della medaglia del distanziamento sociale che ci siamo imposti, delle strade vuote e dei negozi chiusi. A questo esercito di persone ferme a casa e senza reddito vanno aggiunti almeno altri 2,5 milioni di disoccupati ufficiali e il vasto universo, specie al Sud, di chi lavora in nero. Tutti più deboli e scoperti in questa fase. Le previsioni sull’economia sono nere, tendenti al cupissimo. Il nostro Pil, dice il Fondo monetario internazionale, calerà quest’anno del 9,5%, una percentuale da tempi di guerra. La Banca d’Italia è più – forse troppo – ottimista si ferma a un calo del 5,5%. La profondità delle ferite economiche dipenderà ovviamente anche e soprattutto dalla durata del fermo delle attività. Riaprire al più presto è doveroso, ma non prima di aver messo in sicurezza i lavoratori. E anche quando la maggioranza delle imprese e dei servizi sarà di nuovo attiva (ma con quali nuove modalità?) la recessione non si risolverà per incanto. Anzi. Bisogna quindi rafforzare l’intervento pubblico che è stato attivato nelle scorse settimane. E bisogna fare chiarezza. I sussidi ai lavoratori andranno rifinanziati presto. Gli 8 miliardi stanziati per Cig e bonus alle partite Iva dovranno probabilmente salire nei prossimi mesi a un multiplo di quella cifra. Il debito pubblico italiano ci concede poco spazio di manovra, i mercati guardano con ansia ai nostri conti. In queste condizioni dire no agli strumenti che l’Europa può mettere a disposizione, dal Mes alle obbligazioni emesse sotto un cappello comune, è un lusso che nessuno si può permettere.

Francesco Manacorda – la Repubblica – 19 aprile 2020

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L'industria senza governo

Le fabbriche italiane non si sono solo fermate; hanno messo la retromarcia. E la politica è immobile. I dati sulla produzione industriale di dicembre — un calo del 4,3% rispetto a dodici mesi prima, mentre nell’intero 2019 il calo è dell’1,3%, primo dato negativo dal 2014 — danno un’immagine senza filtri dell’economia, lasciano spazio a previsioni poco ottimistiche e richiedono una risposta rapida. Una risposta che dalla politica non arriva: il tema di per sé rispettabilissimo della prescrizione occupa in modo soverchiante il dibattito, allarga la faglia tra Cinquestelle e Italia Viva e non lascia spazio a emergenze concrete come quella economica.

La fotografia che viene dai dati della produzione industriale, innanzitutto e purtroppo, non è una sorpresa. È quella di un Paese che non si è ancora risollevato dalla crisi del 2008, anche se è trascorso oltre un decennio e attorno a noi quasi tutti ce l’hanno fatta. Senza industria non c’è Pil e se l’industria arretra, come sta accadendo adesso, è probabile che anche il Pil segua la stessa strada (i dati preliminari dell’Istat sul quarto trimestre 2018 indicano un — 0,3%) o veda comunque ridimensionate le sue prospettive di crescita. Appena sabato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha avvertito di «significativi rischi al ribasso» sul Pil.

Le previsioni, è ovvio, in questo momento non possono che peggiorare. Gli ingranaggi dell’economia mondiale hanno appena avuto il tempo di assorbire le tensioni legate alla Brexit e di festeggiare lo scampato pericolo della guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, che dalla stessa Cina è arrivato il coronavirus. L’epidemia ha effetti non solo sulla salute delle persone, ma anche sui loro spostamenti, sui commerci, sulla produzione globale, visto che il focolaio dell’infezione è quell’immensa fabbrica asiatica da cui si rifornisce tutto il mondo.

L’Italia, come molti altri Paesi occidentali, verrà colpita dai rallentati commerci con la Cina e dalla carenza di prodotti e componenti che vengono importati da quel Paese e soffrirà poi ulteriormente del rallentamento delle economie dove esporta.

Il quadro è nero, le previsioni cupe. Ci sono soluzioni possibili? La congiuntura internazionale non si modifica per decreto, ma si possono cercare rimedi per evitare almeno che l’Italia sia sempre agli ultimi posti nelle classifiche della crescita. Sulle ricette per fermare il declino c’è una sostanziale consonanza di idee. Serve una burocrazia meno formalistica e più attenta alla sostanza; c’è bisogno di regole certe e di un’amministrazione della giustizia con tempi prevedibili e il più possibile rapidi; ci vogliono spinte perché le imprese innovino e si dedichino a produzioni a più alto valore aggiunto; i futuri dipendenti di queste imprese dovrebbero studiare il più possibile; si deve ovviare al fatto che le dimensioni delle aziende restano troppo piccole.

Ricette facili da formulare, ma che paiono impossibili da applicare. La politica instabile e le maggioranze a geometria variabile preferiscono dare risposte immediate: Quota 100, il reddito di cittadinanza dei grillini e in qualche misura anche l’allargamento del Bonus Renzi voluto dal Pd sono misure che curano il sintomo ma non la causa, non aggrediscono la mancanza di crescita. Eppure per sveltire la burocrazia e assicurare la certezza del diritto, per incentivare chi innova, non servono nemmeno fiumi di investimenti pubblici. Qualcosa si può fare anche con i vincoli stringenti che il nostro debito pubblico ci impone. Chi riuscirà a uscire dall’ottica di una politica tutta piegata sul brevissimo termine, chi proverà a convincere gli elettori che non si vive solo di sussidi quotidiani ma anche di investimenti e progetti per il futuro scriverà un’agenda davvero riformista.

Francesco Manacorda – la Repubblica – 11 febbraio 2020

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