Il buff del pokerista Salvini

Matteo Salvini, leader della Lega, l’ha combinata grossa. Ha dimostrato l’incapacità di comprendere l’istante giusto per staccare la spina che era il giorno dopo l’esito straordinario del voto alle elezioni europee. Il capitano si era persuaso che il premier Giuseppe Conte si sarebbe dimesso non appena lui glielo avrebbe chiesto. Ma così non è stato.

In politica non puoi mai pretendere di essere un  leader infallibile. Mentre è più facile dimostrarsi  di dimostrarsi piuttosto incapace. Ti illudi e pensi di poter fregare tutti. In un attimo rischi di non azzeccare una mossa vincente. Matteo dovrebbe umilmente chiedere informazioni all’ex presidente de consiglioe ed ex segretario dem Matteo Renzi.

Salvini è da anni sulla cresta dell'onda. I consensi sono passati dal 4% al 34. Un successo strabiliante.  E’ fin troppo evidente che si è montato la testa e non sembra disposto ad ascoltare più nessuno. Nemmeno il fido Giorgetti. Per Matteo Salvini è arrivato il momento critico. All’interno suo partito incominciano a prendere le distanze da sue le ultime mosse del segretario. Il mito del capo invincibile si è frantumato sulla riviera romagnola in questo caldo sole d’agosto. Le probabilità che il leader leghista esca con le ossa rotte dalla crisi da lui stesso scatenata sono aumentate. Salvini, dopo aver infilato una serie di successi, uno dietro l'altro, da qualche tempo le sta sbagliando tutte o quasi.

Ha sottovalutato il residente del consiglio Giuseppe Conte. In cuor suo Salvini era arciconvinto che il professore - catapultato da una cattedra universitaria a Palazzo Chigi quasi per caso - avrebbe accettato senza protestare la sua richiesta di dimettersi da capo del’esecutivo, aprendo immediatamente la corsa verso le elezioni politiche anticipate. Ha commesso un grosso, grossissimo, errore. Dopo un anno e mezzo a capo del governo, invitato ai summit mondiali alla pari di Trump e Putin, Conte non è più l'oscuro notaio del patto tra Salvini e Di Maio, ma si crede veramente il presidente del Consiglio italiano. In più è un avvocato, quindi di cavilli e regolamenti ci campa, ed è proprio nella gabbia di paletti costituzionali e parlamentari che ha intrappolato Salvini.

Ha trattato i Cinque Stelle come un partito che vale la metà della Lega. Corrisponde al vero che alle europee il movimento etero-diretto da Grillo (Beppe) e Casaleggio (Davide) ha dimezzato quasi i consensi, mentre la Lega li ha raddoppiati, ma alla Camera ed al Senato i penta stellati hanno quote di parlamentari fotografati al marzo 2018, quando il M5s era il primo partito italiano. Infatti il gruppo parlamentare M5s è il più numeroso, e nel pallottoliere di una crisi di governo sono soltanto quelli i numeri che contano.

Altro ancora. Matteo Salvini non ha considerato che in questo parlamento esistono pure altre forze politiche. Il Partito democratico. Forza Italia. E’ dal punto di vista della nostra carta costituzionale fin troppo elementare che i partiti oggi all’opposizione (come il Pd di Nicola Zingaretti, appunto) di cambiare repentinamente posizione sul M5S che, dal leader leghista, è stato accusato di remare contro questo esecutivo, tanto da pretendere la fine dell’esperienza del governo gialloverde, possano aspirare a rientrare nel gioco democratico per la riconquista di Palazzo Chigi. Il Pd sta per cogliere l'incredibile opportunità di passare dalla minoranza alla maggioranza di governo e magari starci fino a fine legislatura. Uno smacco per Matteo Salvini. Una sconfitta che fa male. Però, a dire il vero, ha gestito la partita in modo maldestro. Voleva la flat tax, la tassa piatta. Non l’ha ottenuta. Voleva il federalismo differenziato per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. E si è in alto mare. Di burrasca. Perché i grillini si sono opposti con tutte le loro forze. Volevano riaprire tutti i cantieri e si sono ritrovati un Danilo Toninelli che ha opposto ostacoli su ostacoli. Dal lato dei pentastellati, un po’ troppo, per la verità, vituperati dal Matteo lumbard, Luigi Di Maio e soci pur di evitare lo scioglimento delle Camere, l'addio ai benefit fin qui goduti, come cadreghe ministeriali e altro, legittimamente cercano di opporsi alla richiesta salviniana della resa dei conti (bisogna riflettere sul fatto che fino a poche settimane fa, l’idillio a Palazzo Chigi fra Matteo e Luigi appariva senza neppure una lieve ombra: il contratto reggeva). E’ chiaro che un ritorno alle urne in tempi ravvicinati avrebbe recato al M5S danni incommensurabili, per l’unica comprensibile reazione era barricarsi sulle loro posizioni, pretendere un chiarimento subito le comunicazioni del presidente del consiglio martedì 20 e vedere un po’ l’atteggiamento dei leghisti. Sfiduceranno Conte? Il professore andrà al Quirinae a rimettere il mandato? E se sì, cosa farà il presidente Mattarella? La situazione è molto complicata. La pretesa di Salvini: tolgo la fiducia a Conte così si vota, si è rivelata sbagliata.

Anche Giancarlo Giorgetti si è lamentato per come il capitano ha gestito la crisi che lui stesso ha scatenato.  Non di aver rotto con i pentastellati, ma di averlo fatto tardi e nel momento sbagliato. La spina andava staccata subito dopo le elezioni europee. I rapporti di forza tra Lega e M5s si erano ribaltati. Non ci sarebbe stato l'alibi della scadenza della finanziaria ,si sarebbe aperta la finestra del voto in modo più semplice. Matteo Salvini ha aspettato, passando le successive settimane a litigare con i grillini ma smentendo a ripetizione l'intenzione di voler rompere il contratto con i Cinque Stelle. Fino a cambiare repentinamente linea ad agosto, dopo aver «scoperto» che il M5s è No-Tav. Un fatto che sapevano anche le pietre della Val di Susa.

In più non ha ritirato la delegazione di ministri leghisti. Operazione che gli avrebbe garantito due cose poter rivendicare davanti al popolo di aver rinunciato alle «poltrone»; ma soprattutto avrebbe tagliato le gambe al governo Conte costringendolo a presentarsi dimissionario al Quirinale. Ennesima superficialità riguarda anche i rapporti con il Quirinale. Salvini riteneva che il capo dello Stato avrebbe limitato a prendere atto della sue decisione di chiudere con i grillini per andare al voto? La mossa di dire ok al taglio dei parlamentari ma poi subito al voto» (tra l'altro dopo aver detto che era solo un alibi per allungare i tempi), non ha fatto altro che irritare il Quirinale per la forzatura. L'ultimo e più tragico errore, però, sarebbe quello di fare una seconda svolta e tornare da Di Maio. A quel punto oltre a perdere la possibilità delle elezioni, la Lega rischierebbe di perdere la faccia. Se questo è uno statista...

Marco Ilapi, 18 agosto 2019

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Spread oltre quota 300. Palazzo Chigi: non cambia nulla

E’ triste e preoccupante quanto sta accadendo nel panorama politico nostrano. Dal momento dell’insediamento a Palazzo Chigi di questa strana coppia che, si vuole ricordare, si è presentata alle elezioni del 4 marzo con programmi che marciavano in direzione opposta. E’ elementare la considerazione che prima o poi la coalizione di governo imploderà. E’ solo questione di qualche  mese. Nessuno, ma proprio nessuno (neanche i gialloverdi) crede davvero che l’esecutivo possa durare nel tempo: non cinque anni, ma non mangerà il panettone il 25 dicembre 2019. Fino alle europee certamente resisterà sulla breccia. Non oltre. A Natale 2019, molto probabilmente, a Palazzo Chigi siederà Mario Draghi. Di Maio e Salvini insistono nell’affermare che il loro governo è di legislatura. Sommessamente desideriamo sottolineare che anche Silvio Berlusconi al tempo in cui Forza Italia aveva livelli di consenso quasi bulgari riteneva di poter stare al potere per almeno un ventennio. E’ bastato poco (lo spread a quota 574 nel novembre del 2011) per scalzarlo dal trono. Così anche Ignazio Marino, sindaco di Roma, che assicurava l’elettorato romano (che lo aveva catapultato, contro ogni previsione, in Campidoglio): “Io resterò sindaco fino al 2018”. Peccato che siamo nel 2018 e sindaco a Roma sia Virginia Raggi, eletta a furor di popolo con un’altra percentuale bulgara. Anche il sindaco pentastellato romano non si tira indietro e giura che rimarrà in sella per l’intera consiliatura.  Sarà e le facciamo i nostri migliori auguri. Forse, però, sarebbe il caso di ammonire questi arroganti politici che l’elettorato è mobile, non è più ingessato in ideali (destra, sinistra, partito comunista, socialista o democristiano che dir si voglia) e che se le promesse elettorali non vengono mantenute, basta poco per voltare le spalle a leghisti e grillini. Il problema è che l’aumento dello spread spaventa gli imprenditori. Sia quelli del nord, ma anche quelli del centro e del Sud. Male, malissimo fanno i nostri audaci governanti a sottovalutare i rischi che l’Italia sta correndo. E’ impossibile resistere alla prepotenza dei mercati finanziari. Non ci riuscirebbero nemmeno il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, né il cancelliere della Germania Angela Merkel, né il povero Emmanuel Macron, né la pugnace Theresa May. Provate ad immaginare Wall Street che ingrana la marcia indietro per un lungo periodo di tempo, o la City che impazzisce per le politiche che il governo di Londra porta avanti. Verrebbero spazzati via in un baleno. Con queste considerazioni non significa che bisogna calarsi le brache di fronte ai diktat della Commissione Europea. Questo sicuramente no. Ma cercare di proposito lo scontro, il muro contro muro non è la scelta più opportuna per conseguire i risultati che si auspicano. Lasciamo, per un attimo, i cinquestelle che coltivano i loro sogni che portano alla decrescita non felice ma infelice. Ogni volta che appaiono nei vari talk televisivi o vengono intervistati raccontano le stesse cose: “Il contratto di governo, letto, firmato e sottoscritto, va integralmente rispettato”. A parte che stipulare un accordo di governo non è come andare al mercato, contrattare, appunto, per comprare patate, fagioli o mele. Non è mai accaduto nella vita politica italiana che un esecutivo si sia formato su una base contrattuale. Vorrà significare qualcosa. O no? Un governo autorevole deve affrontare una serie di problematiche non certamente inquadrabili in una disciplina contrattuale. Lo intendono anche gli studenti di giurisprudenza al primo anno. Fa strano che il presidente Sergio Mattarella abbia dato il suo Ok ad un esecutivo così strampalato. Che non riuscirà a portare a termine il suo mandato per l’incongruenza, per le evidenti contraddizioni del suo programma. Non esiste proprio. E i nodi vengono puntualmente al pettine. Ance sul problema dei termovalorizzatori la compagnia governativa bisticcia. Ma torniamo alle note dolenti. Adesso lo spread ha ripreso la sua corsa. Si è detto e scritto che il livello di massimo pericolo sarà quando toccherà quota 400 rispetto al bund tedesco. Non ci vuole molto. Abbiamo già superato i 334 punti base. Nonostante i due cavalieri dell’apocalisse, Di Maio (in caduta forte di consensi, anche all’interno del suo movimento) e Salvini ostentino tranquillità, le cose tendono lentamente ma inesorabilmente al peggio. Riteniamo che i ministri Tria e Savona siano piuttosto angosciati. Perché i mutui sono più cari. Un nostro imprenditore pagherà il denaro assai più di un collega tedesco o francese. Chi di noi ha un mutuo a tasso variabile, dovrà rassegnarsi a pagare interessi più salati. Il bilancio dello Stato ne risentirà, il debito, già mostruosamente alto, non diminuirà, nonostante le assicurazioni, e il disavanzo subirà un’impennata varcando la soglia del 3% del Pil. Scusate se queste considerazioni sono venate di pessimismo. Ma è la realtà delle cose. Delle nostre cose. Bruno Vespa, intervistato da Pietro Senaldi, direttore di Libero, sostiene che Luigi Di Maio e Matteo Salvini abbiano fatto bene ad ingaggiare una battaglia con la Commissione Europea. Ma a tutto c’è un limite. Dice: «La spallata era necessaria, tutto sta a non darla così forte da rompersi la spalla, come temo stia accadendo, visto che la manovra è dichiaratamente e volontariamente fuori dagli schemi abituali. Il banco salterebbe se Mattarella non desse il via libera alla manovra perché essa non rispetta il vincolo del pareggio di bilancio. Però il presidente ha fatto capire che non lo farà e non credo neppure che l' Europa strapperà: l' Italia è troppo importante, e poi non c' è un' alternativa a questo esecutivo». Poi aggiunge:«Stanno emergendo le incompatibilità della coppia. Un conto è quel che è previsto nel contratto di governo, sul quale in un modo o nell' altro si trova un accordo (sia pure con molte ambiguità) come nel caso della prescrizione, altro è quello che non c' è o è scritto in maniera ambigua come la gestione dello smaltimento rifiuti: qui emergono le differenze ideologiche tra Lega e Movimento». Se questo non è un de profundis per il governo giallo-verde, poco ci manca. E Bruno Vespa non si può dire certo che non conosca la politica ed i politici italiani. La crescita dello spread ci sta a segnalare che qualcosa non va per il verso giusto quello auspicato dai nostri due generali. Che non sono due statisti, capaci, cioè, di fare il bene del Paese non quello dei rispettivi movimenti di appartenenza. Non sono né Alcide de Gasperi né Enrico Berlinguer. Un altro osservatore, lo storico e giornalista Giordano Bruno Guerri, dieci anni fa, quando Silvio Berlusconi riconquistava Palazzo Chigi, dava questo al neo presidente del Consiglio questo suggerimento:Uno statista guarda alla prossima generazione». Guardare alla prossima generazione non significa soltanto assicurare pensioni, lavoro, case. Certo, anche quello. Ma anche, se non soprattutto, «educazione per ogni cuore, luce per ogni intelligenza». Un politico mette la nazione al proprio servizio, uno statista si mette al servizio della nazione. È questo che dovrà fare Berlusconi (e il suggerimento dovrebbe essere accolto da Di Maio e Salvini, n.d.r.) : essere al servizio della nazione e del suo futuro. Tutta la nazione, anche quella che gli è più avversa, quella che – avendo perso ogni rappresentanza in Parlamento – userà sempre più i sindacati come strumento di lotta politica. E che non bisogna considerare come se avesse torto a priori. Berlusconi diventerà un grande statista se saprà pensare al cuore e all’intelligenza degli italiani, di tutti gli italiani, e non solo ai loro bisogni economici”. Salvini e Di Maio ci riflettano. Seriamente. E, in particolare, il leader leghista tenga, a futura memoria, la foto di Matteo Renzi sulla sua scrivania. Luigi Di Maio rifletta sulle regole che ha sottoscritto con Beppe Grillo rima e con Davide Casaleggio poi. Si ritorceranno contro di lui. Per dirne una, la prossima legislatura non lo vedrà sui banchi del Parlamento, perché le regole del M5S lo impediscono. Salvini, invece, dopo le europee passerà all’incasso del dividendo elettorale. Magari stracciando il contratto di governo stipulato con i Cinquestelle. E tanti saluti a Di Maio, Fico e dintorni. I due dioscuri di Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Antonio Conte, il pavido ministro dell’economia Giovanni Tria e quello delle politiche europee Paolo Savona dovrebbero riflettere attentamente sui rischi che corre il Belpaese per questo atteggiamento assolutamente incomprensibile ed inaccettabile che, da mesi ormai, contrappone Roma a Bruxelles. Il vero salasso riguarda il fatto che se la Commissione Europea dovesse avviare la procedura per debito eccessivo o anche per disavanzo eccessivo, ciò imporrebbe un taglio del debito pubblico nel massimo del 5% l'anno: non cesserebbe io insomma fin tanto che dal 131% non scenderà sotto il 60%. Come? Con misure draconiane anche da 60 miliardi annui, che saranno più o meno pesanti a seconda delle risposte di Roma, da fare comunque digerire a un Paese bloccato sul fronte degli investimenti e massacrato su quello degli azionisti.Tutto questo è previsto dalle norme sottoscritte a suo tempo anche dall’Italia. Non bisogna dimenticarsene. I rischi che sta correndo il Belpaese è magnificamente descritto sulle colonne del Giornale, direttore Alessandro Sallusti. Ecco quel che scrive Franco Grilli. “Lo spauracchio che agita l'Ue è quello di sanzioni pesanti che potrebbero seguire la procedura di infrazione che Bruxelles ha ormai avviato. Ma tra le sanzioni vere e proprie e la trattativa per convincere il governo a mettere mano alla legge di Bilancio modificandola nei punti chiesti dall'Ue, potrebbe esserci una sanzione intermedia che potrebbe scattare subito: si tratta di un deposito pari allo 0,2 per cento del Pil.

Marco Ilapi, 21 novembre 2018

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