Il caffè che non si prende più al bancone del bar, ristoranti e negozi in lockdown, il saluto distante, il bacio negato, l’abbraccio desiderato… Quando il virus, presto o tardi, sarà debellato, rimarremo noi, gli italiani del giorno dopo. “Trascorsi cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese, il mio cuore finalmente si è placato. E io ho scoperto, con mia grande gioia, che è la vita, e non la morte, a non avere confini”, dice Florentino Ariza nel finale de “L’amore ai tempi del colera”. Giace sdraiato su un letto, accanto all’amata, in crociera sul battello fluviale che risale il fiume Magdalena mentre attorno la foresta è disboscata, i villaggi infestati dal colera. Il coronavirus, sbucato fuori da quei mercati cinesi dove pipistrelli e serpenti vengono macellati a cielo aperto, non è l’ebola né la peste, eppure ha “sigillato” prima il nord Italia e poi l’Italia intera, mutando, nel profondo, il nostro stile di vita: la socialità contratta, la mobilità ridotta, il generale rallentamento delle nostre esistenze. “Io resto a casa”, perché devo. Ne usciremo migliori, peggiori? Ne usciremo diversi. Il clima da isolamento coatto ci porta a “santificare” il tempo, come accade ogni venerdì, al tramonto del sole, secondo la tradizione dello Shabbat ebraico. E’ il nostro Settimo giorno che speriamo abbia fine il prima possibile.
“Fin quando non tocca qualcuno che conosci e che risulta positivo o contagiato, il virus sembra una cosa astratta. Quando succede, ti accorgi che il contagio è vicino”. Francesco Merlo ha una persona amica che sta lottando in Lombardia contro il virus. “Io sono un meridionale, d’indole un po’ fatalista, non ho con la scienza un rapporto di totale affidamento illuminista – dice al Foglio una delle storiche firme di Repubblica – Tengo in enorme considerazione il ruolo degli scienziati: i tecnici vanno chiamati e ascoltati senza dimenticare che poi, in ultima analisi, spetta alla politica decidere. In Italia assistiamo da decenni al supplizio di una politica alla ricerca permanente di un supplente. Il virologo persegue un unico scopo: isolare il virus; non deve fare il ministro dell’Economia o del Turismo. Va perciò ascoltato lasciando che sia il politico a prendere le decisioni”. Come si è visto nel caso italiano, errori di comunicazione e azioni contraddittorie possono produrre giganteschi danni reputazionali per un paese. “La comunicazione, in generale, è stata gestita male. La trasparenza in sé è utile e pericolosa: il nome dei morti non viene diffuso per proteggere le rispettive famiglie, ci affidiamo perciò alle notizie che abbiamo, consapevoli di vivere in un paese dove la libertà di sapere è opportunamente coartata in nome del bene comune. Il virus però ha fatto anche dell’altro: ha patologizzato il sovranismo”. In che senso? “Il Covid19 mette in crisi la cretinocrazia e richiama in primo piano la competenza. Non abbiamo bisogno di un uomo forte a cui conferire poteri: serve una persona competente che dica la verità. Serve equilibrio per restituire fiducia a chi la merita. La paura delle persone di fronte a una minaccia concreta per la salute fa sì che la testa torni a prevalere su pancia e istinto. Il virus patologizza il sovranismo perché ti chiude dentro le pareti di una stanza. Vince la falsa idea che esista soltanto un uomo identificato nei suoi confini, autarchico, ristretto in uno spazio delimitato. La verità è che il mondo impazzisce in certi momenti della storia. Guardavo le immagini di ciò che accade al confine greco-turco dove torme di profughi di guerra, con diritto d’asilo, si ritrovano come in trappola tra i turchi, da un lato, e i greci, dall’altro. E proprio i greci – gli europei – reagiscono sparando e manganellando. Questa è l’Europa cristiana?”.
La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha difeso la linea dura di Atene definendo la Grecia “scudo d’Europa”. “Mentre noi siamo atterriti dal coronavirus, migliaia di famiglie siriane, in fuga dalla guerra, vengono fermate con il filo spinato, i fucili puntati, la pioggia di lacrimogeni. E i vertici dell’Europa si mostrano compatti nell’elogio di chi protegge i confini con ogni mezzo e a qualunque costo”. Stride il silenzio delle anime belle. “In altri momenti le persone sensibili, io le chiamo così, avrebbero protestato a gran voce ma adesso sono distratte dalla paura per la propria salute e per quella dei propri affetti. Il resto passa in secondo piano”. L’Italia sembra diventata la Wuhan d’Europa. “In una situazione difficile come quella che attraversiamo, dobbiamo attenerci scrupolosamente alle direttive impartite senza trasformare il principio di precauzione in una autentica ossessione. C’è una certa psicosi, inevitabile, alimentata anche dalla imperizia della politica che si vestiva ora da operaio jungheriano, ora da milite della fatica. Matteo Salvini in divisa non è diverso dal premier che si presenta davanti alle telecamere nella sala bunker della Protezione civile”. L’Europa intanto si muove in ordine sparso. “L’Europa non c’è, ognuno fa quel che può. Gli eccessi andrebbero sempre evitati. Non oso immaginare che cosa accadrà quando il virus arriverà in mano ai sindacalisti: se lavori in un ufficio dove un collega ha un figlio o un parente sospetto, partirà l’embargo verso quel collega. I sindacalisti pretenderanno che tutti si sottopongano al tampone. E così ti sentirai processato per la sfortuna di avere un familiare malato”.
Gli anziani sono le creature fragili di questa epidemia. “In realtà, sono i migliori in circolazione. Se vuoi ascoltare della buona musica, chi scegli se non Paolo Conte, Mina, Vasco Rossi, Ornella Vanoni? Se vuoi concederti un po’ di spensieratezza, a chi pensi se non a Renzo Arbore, Sofia Loren, Gianni Morandi, Roberto Benigni? La socialità degli over 60 è la più frizzante. Ma la ventilazione per un anziano può essere molto problematica, perciò è esposto a rischi maggiori. Se gli ospedali sono alle prese con la carenza di posti in rianimazione, una persona colpita da ictus rischia di non ricevere cure adeguate. E i medici, che stanno in contatto con i pazienti, sono chiamati a scegliere chi curare e chi no. Sono loro quelli in trincea: i medici, non i virologi”. L’uomo non è più onnipotente.
Dalle parti di largo Fochetti, le riunioni di redazione si svolgono nella solita stanza ma la maggior parte dei giornalisti è in smart working. “Agli inviati nelle zone complicate – racconta al Foglio il direttore di Repubblica Carlo Verdelli – chiediamo di usare cautela, ma i giornali non si possono fare da casa con il telelavoro. Un quotidiano è come una nave: alcune manovre puoi effettuarle solo stando a bordo”. Lei come affronta la crisi? “Da cittadino sono preoccupato perché vedo che il quadro generale peggiora, l’Oms ha dichiarato la pandemia che si espande a macchia d’olio in tutto il mondo. Come direttore, non ho il minimo dubbio su che cosa debba fare un giornale: il nostro dovere non è quello di tranquillizzare le persone ma di fotografare la realtà per quello che osserviamo. Il paese è entrato in una terra incognita: non sappiamo quanto durerà, se, come e quando ne usciremo. Mai come in questi momenti servono pazienza e ragionevolezza”. Il virus ci tiene intrappolati in spazi claustrofobici dove manca il respiro. “Siamo entrati in una quarantena nazionale. Questa malattia tende a sigillare i confini degli stati e a creare zone blindate all’interno di ogni singolo stato, ma la chiusura è un riflesso ideologico totalmente antistorico. Rispetto alla comparsa del virus, esiste un prima e un dopo a livello mondiale: fino a quel momento, il mondo intero sembrava orientato verso traiettorie innovative come l’intelligenza artificiale, la conquista di Marte, la cybersecurity. Poi, di colpo, un virus mellifluo e apparentemente innocuo diventa il sassolino che inceppa la grandiosa macchina del progresso, e l’uomo non è più onnipotente, non è più il padrone assoluto della rivoluzione digitale e tecnologica. Il virus è subdolo perché sappiamo ben poco di lui: ha un basso tasso di letalità, non devasta l’organismo, nella maggior parte dei casi procura sintomi lievi o addirittura nulli, le vittime sono perlopiù anziani già affetti da altre patologie. Eppure questo esserino primordiale sta paralizzando il mondo”.
Negli Usa, dove diversi stati hanno dichiarato l’emergenza, Donald Trump ha firmato un pacchetto da 8,3 miliardi di dollari per affrontare la crisi. E ha bloccato per primo i voli dall’Europa. “Oltreoceano le conseguenze del contagio possono essere devastanti. Com’è noto, il virus si diffonde rapidamente e il servizio sanitario americano è molto diverso da quello italiano dove chiunque può avere accesso alle cure, anche se sprovvisto di un’assicurazione. Se i focolai divampano, come si comporterà un presidente in corsa per il secondo mandato?”. L’amministrazione Trump sta valutando un piano straordinario per consentire a ospedali e medici di curare gratuitamente le persone senza assicurazione, come accade per i disastri ambientali. “Trump potrebbe vedersi costretto a ripristinare l’Obamacare che ha contribuito a smantellare, penalizzando gli interessi delle lobby delle compagnie assicurative che da sempre lo sostengono. Di certo, sanità e contenimento del virus entrano prepotentemente nel dibattito per la corsa alla Casa Bianca”. Lei ricorda choc paragonabili in tempi recenti? “Nessuno di simili proporzioni. Forse l’attacco alle Torri gemelle pietrificò il mondo con la stessa forza travolgente ma con una differenza fondamentale: all’indomani dell’11 settembre, il nemico da fronteggiare aveva una identità nota, perlomeno nei suoi tratti distintivi. Nel caso del coronavirus invece ci muoviamo in una terra completamente incognita, ignari di quel che ci aspetta domani”. La redazione di via Solferino è un punto d’osservazione speciale su Milano, la capitale morale d’Italia letteralmente “locked down”. “Quello che appariva inimmaginabile fino a qualche giorno fa è accaduto – dice al Foglio il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana – Al giornale cerchiamo di evitare l’affollamento, abbiamo ovviamente annullato gli eventi pubblici e gli accessi esterni. Milano non sembra più lei: una città abituata all’effervescenza sociale e culturale adesso appare come sospesa. Non si vedono i turisti, non si vedono i milanesi, che evitano i luoghi affollati e gli assembramenti umani, e i ristoranti sono chiusi. E’ vietato entrare o uscire dalla ‘zona di sicurezza’, se non in casi eccezionali e ‘comprovati’. Si vedono i militari per le strade, ed è nostro dovere rispettare pedissequamente le prescrizioni impartite. La città ha una straordinaria voglia di ripartire, siamo tutti in attesa del primo segnale positivo. La preparazione del giorno dopo è già cominciata. La rassegnazione non fa parte del dna milanese. Ciò non toglie che il virus abbia già cambiato profondamente i piccoli gesti quotidiani. Questo pezzo d’Italia, abituato a trainare e a inseguire obiettivi sempre nuovi, riscopre un tempo lento, dilatato. A voler trovare un lato positivo, si può dire che scopriamo, per esempio, che numerosi spostamenti che puntellavano la nostra routine si possono evitare grazie alle moderne tecnologie digitali. Le riunioni da remoto riguardano anche tribunali e procure: se si cogliesse questa opportunità per imprimere una svolta nell’organizzazione della macchina amministrativa, sarebbe positivo”. Il virus disvela anche la fragilità umana davanti alla malattia. “Il mondo globalizzato è intessuto di connessioni: i virus viaggiano senza barriere. Il confronto con le epidemie del passato, ben più letali di questa, non regge perché all’epoca l’aspettativa di vita era sensibilmente inferiore. Nella società contemporanea le persone godono, in generale, di ottima salute grazie ai progressi della medicina e del servizio sanitario: il virus mette in discussione questa certezza. Se in passato la morte era compagna fissa dell’esistenza, oggi si fa fatica a elaborare l’idea stessa di non esserci più. Ci credevamo invincibili ma non lo siamo”. Agli occhi del mondo, gli italiani sembrano i cinesi d’Europa. “L’interrogativo su cui riflettere è se abbiamo lanciato un allarme eccessivo o siamo stati i più seri di tutti. Probabilmente, in altri paesi, molte morti per polmoniti gravi sono state trattate e classificate come decessi generici, pur non essendo slegate dal virus. Nella prima fase della gestione dell’emergenza in Italia abbiamo assistito, senza dubbio, a momenti di confusione, a decisioni non coordinate che hanno diffuso la sensazione di non saper fronteggiare la situazione in modo adeguato.
Adesso il clima è cambiato perché la situazione è precipitata ovunque, si discute addirittura se non sia stato un cittadino tedesco il primo europeo ad aver contratto l’infezione e ad averla trasmessa. Tutti i paesi stanno mettendo in campo misure di contenimento”. Quando l’Italia aveva già effettuato 21 mila tamponi, Germania e Francia erano sotto i mille. “Ciò ha influito nella percezione generale. Non so se siamo stati più sfortunati o più trasparenti realizzando uno screening così esteso, senza nascondere le morti sospette”.
Il contagio economico rischia di essere più letale del virus? “I danni per la nostra economia, orientata verso le esportazioni, saranno notevoli. A Milano il Salone del mobile è stato rimandato a giugno, come ogni altro evento e fiera. Viviamo in uno stato innaturale delle cose”. A livello europeo c’è chi sfrutta le difficoltà italiane per porre vincoli e divieti al nostro export agroalimentare: la richiesta di certificazioni virus-free, le fake news su mozzarelle e pizze contaminate. Devo riconoscere che l’Europa come comunità ha dato una pessima prova in questo frangente, non c’è stato alcun segno concreto di solidarietà. L’adozione di misure comuni di contenimento avrebbe garantito uniformità di comportamenti evitando che alcuni paesi fossero più esposti di altri. Dobbiamo prendere atto che quella attuale è l’Europa degli stati dove ognuno cerca di far valere i propri interessi anche approfittando delle avversità altrui. Nelle prossime settimane, superata l’emergenza, bisognerà mettere in piedi una massiccia campagna di comunicazione per rilanciare l’immagine di un paese che funziona”. Oltreoceano il virus avrà ricadute nella corsa per la Casa Bianca? “Molto dipenderà dalla intensità del contagio. Sulle prime il presidente Trump ha affrontato la questione con superficialità, l’aveva sottovalutata, invece il virus va preso sul serio. In un sistema dove, in assenza di assicurazione sanitaria, è difficile avere accesso alle cure, va scongiurato il rischio che una porzione della popolazione rimanga tagliata fuori”.
Restando dalle parti di via Solferino, Aldo Cazzullo, scrittore e firma del Corriere, ci spiega che grazie alla vita in quarantena si compie una sorta di “igiene” del nostro tempo: “Ci rendiamo conto, all’improvviso, che almeno la metà delle cose che facciamo sono letteralmente inutili. Vediamo molte persone che faremmo volentieri a meno di vedere. Sprechiamo una montagna di tempo”. La vita a un metro come viatico per la “santificazione” del tempo. “E’ il bene più prezioso che abbiamo: dovremmo imparare a concederlo solo a chi lo merita davvero. Rallentare il ritmo non è per forza negativo, mi preoccupano di più le conseguenze per l’economia e per i posti di lavoro che già scarseggiano nel nostro paese. Un cambio di abitudini temporaneo, finalizzato a contenere la propagazione del virus, non è di per sé scandaloso. Del resto, a infettarsi più degli altri sono le professioni che comportano una dose di socialità: giornalisti, medici, infermieri. Se c’è una cosa bella del nostro mestiere, è vivere la vita degli altri. Rallentare il ritmo può fare bene”. Per chi è workaholic, non è semplice. “Anche io sono workaholic, anche a me questa incertezza genera un filo di ansia, ma dobbiamo vincerla. I francesi usano l’espressione ‘prendre du recul’, nel senso di prendere distanza da noi stessi, dalle nostre abitudini, dai nostri ritmi frenetici. Ritagliamoci del tempo per leggere un libro, per ascoltare della buona musica. Cambia anche la dimensione familiare perché ora i figli restano a casa, e noi genitori facciamo fatica a comunicare con loro. Pieghiamoci sul solco delle loro vite: parliamoci, ascoltiamoci, riscopriamo i rapporti umani. Ho trascorso qualche giorno a Londra, quando era possibile, e non mi sono sentito trattato come un untore. Gli italiani non sono diventati gli untori agli occhi del mondo, non scherziamo”.
Se un presidente del Consiglio punta il dito, pubblicamente, contro un ospedale locale, non c’è da stupirsi che la Cnn titoli sull’“ammissione” del governo italiano. “A Codogno sono stati commessi evidenti errori ma è chiaro che, se lo dice il premier, all’estero si trasmette l’idea di un sistema sanitario non all’altezza, il che per giunta è falso: i nostri medici e infermieri stanno compiendo sforzi eroici e non se lo meritano”. In casa la tv ci tiene compagnia.
Annalisa Chirico - Il Foglio - 18 marzo 2020