Mani pulite no, grazie

“Viviamo in un tempo non ordinario: la storia ha fatto una delle sue grandi svolte”, esordisce così il professor Giulio Tremonti in una chiacchierata con il Foglio. “L’incidente di Wuhan è un po’ l’omologo dell’incidente di Sarajevo: un luogo remoto, prima sottovalutato, poi la Grande guerra e la fine della Belle époque, oggi della globalizzazione”. Per il presidente di Aspen Institute “nella temperie straordinaria del presente la nostra Costituzione ha saputo reggere una prova di resistenza dal lato della pandemia e dell’economia”. In che senso? “Nella Costituzione si prevede che sia competenza esclusiva dello stato, e non delle regioni, la profilassi internazionale; poi, nello stesso testo, si leggono parole come pericolo per la sicurezza e incolumità pubblica. Si prevede che in questi casi tutto sia competenza esclusiva, non rinunciabile, del governo centrale, dai trasporti agli edifici pubblici alla sanità. Se questa è la lettera del dettato costituzionale, l’applicazione è stata non solo ritardata ma erratica e discontinua”. Sul banco degli imputati è finito il governo della regione Lombardia. “Non mi pare il tempo di polemiche – replica Tremonti – ma, a volerle fare contro le regioni del nord, sono polemiche suicide: non si può condannare per omissione un’amministrazione locale ignorando l’omissione dell’amministrazione statale che, data la Costituzione, non ha facoltà ma doveri. Soprattutto è suicida non considerare che la dichiarazione di emergenza nazionale, con ciò che ne consegue in termini di doveri e poteri, presuppone un’azione unica di governo e non la compresenza di governi locali. La fonte del diritto non può che essere statale, gli atti possono essere differenziati sul territorio. Le regioni hanno dovuto agire nel vacuum del potere centrale. Perciò, se s’intende indagare la giunta lombarda per presunte violazioni di leggi ordinarie, a me pare certa invece la disapplicazione, arbitraria e inaccettabile, della Costituzione”. Anche il presidente emerito della Consulta Sabino Cassese ha evidenziato, nel caso di crisi epidemiche, la competenza esclusiva in capo a Palazzo Chigi. “Come non concordare?”. Seguendo il filo del ragionamento, toccherebbe al premier Giuseppe Conte sedere al banco degli imputati. “Sconsiglio vivamente la trasposizione giudiziaria di una vicenda che va valutata sul piano politico. Invece di leggere la Costituzione si è recitato un palinsesto sviluppato per atti. Atto primo: derby tra buoni e cattivi, tra moderni e arretrati, e dunque ricevimenti presso l’ambasciata cinese, visite a scuole e ristoranti come se fosse questione di bon ton. Atto secondo: situation room, il premier in maglione attorniato da una folla non distanziata con personaggi in abito d’ufficio, maglioni alternativi, tute mimetiche, signore in tailleur. Atto terzo: il frenetico passaggio da tutti i talk-show. Atto quarto: la dichiarazione di emergenza a cui non crede neanche il governo che la dichiara al punto che, per fasi alterne, lascia spazio a competenze inesistenti dato il carattere totalizzante dell’articolo 117, secondo comma, lettera q come quaquaraquà”. E l’Europa? “Si distingue, più che per pittoresca presenza, per totale assenza. Nel trattato europeo la sanità è competenza concorrente della Commissione e del Parlamento: nella lotta ai grandi flagelli e nella prevenzione di malattie e infezioni l’Europa ha un ruolo fortissimo ma si è mostrata incapace di guidare un’iniziativa anche di mero coordinamento dell’azione dei paesi membri”. Massimo D’Alema, su quanto innescato dalla Sarajevo cinese, ha definito “inevitabile” una riforma del capitalismo e della Costituzione materiale. “Il capitalismo si sta già riformando per suo conto regredendo dalla eresia mercatista (il mercato è tutto e tutto è mercato) verso l’ortodossia liberale scritta nella Ricchezza delle nazioni: certo l’economia ma anche le regole. Nella costruzione della ideologia mercatista, l’ultima del Novecento, è stato determinante il ruolo della sinistra che ha trasferito i suoi sconfitti Penati da Mosca alla City di Londra, a Wall Street, a Bruxelles”. Colpa del thatcherismo? “Chi ha conosciuto Margaret Thatcher sa bene che era certamente ‘capitalista’ ma non globalista, lei era una liberale nazionalista che mandava la flotta alle Falklands. Va riconosciuto invece a D’Alema un ruolo non fanatico, simile a quello dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti francesi. Nel 1999, alla Conferenza mondiale di Firenze sulla cosiddetta Terza via partecipano i Prodi, i Clinton, i Blair; non risulta che D’Alema fosse presente. E fa anche piacere che adesso lui si ritrovi con la Costituzione europea sconfitta per referendum in Francia e in Olanda; quella bozza era stata firmata a Roma sotto il governo Berlusconi. Dato tutto questo, è comunque in linea con la Costituzione del ’48, questa sì bilanciata perfettamente tra le diverse ideologie del Novecento”. Risale al G20 del 2009 la proposta di passare dal free trade al fair trade. “In quella sede si confrontarono due visioni opposte: quella italiana era di risalire a monte della catena di produzione. Ne derivò la bozza di un trattato multilaterale, il Global legal standard, votato all’unanimità dall’Ocse, che all’articolo 4 prevedeva regole in materia sanitaria e igienica. Le dice niente? Alla fine prevalse la visione del Financial stability board”. Guidato, all’epoca, da Mario Draghi. “Sono seguiti altri dieci anni di globalizzazione sfrenata, e adesso raccogliamo i frutti avvelenati. Nel mio ultimo libro ‘le tre profezie’, come recita il titolo, sono quelle di Marx, Goethe, Leopardi, ma le profezie sono contenute anche nelle Scritture: la prima è la cacciata dal Paradiso terrestre, non crederà alla storia del serpente e della mela? Un’altra profezia è nella storia del Diluvio: il passaggio del meglio verso la salvezza. Sull’Arca di Noé farei salire allora uno stato che fa lo stato, una politica che fa la politica, un mercato che può finalmente fare il mercato senza l’eccesso di vincoli che lo opprimono. Negherei invece l’accesso a falsi profeti e cattivi maestri, facilmente identificabili perché Google non perdona”.

Annalisa Chirico - Il Foglio – 11 aprile 2020

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Il virus ci sta cambiando

Il caffè che non si prende più al bancone del bar, ristoranti e negozi in lockdown, il saluto distante, il bacio negato, l’abbraccio desiderato… Quando il virus, presto o tardi, sarà debellato, rimarremo noi, gli italiani del giorno dopo. “Trascorsi cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese, il mio cuore finalmente si è placato. E io ho scoperto, con mia grande gioia, che è la vita, e non la morte, a non avere confini”, dice Florentino Ariza nel finale de “L’amore ai tempi del colera”. Giace sdraiato su un letto, accanto all’amata, in crociera sul battello fluviale che risale il fiume Magdalena mentre attorno la foresta è disboscata, i villaggi infestati dal colera. Il coronavirus, sbucato fuori da quei mercati cinesi dove pipistrelli e serpenti vengono macellati a cielo aperto, non è l’ebola né la peste, eppure ha “sigillato” prima il nord Italia e poi l’Italia intera, mutando, nel profondo, il nostro stile di vita: la socialità contratta, la mobilità ridotta, il generale rallentamento delle nostre esistenze. “Io resto a casa”, perché devo. Ne usciremo migliori, peggiori? Ne usciremo diversi. Il clima da isolamento coatto ci porta a “santificare” il tempo, come accade ogni venerdì, al tramonto del sole, secondo la tradizione dello Shabbat ebraico. E’ il nostro Settimo giorno che speriamo abbia fine il prima possibile. 

“Fin quando non tocca qualcuno che conosci e che risulta positivo o contagiato, il virus sembra una cosa astratta. Quando succede, ti accorgi che il contagio è vicino”. Francesco Merlo ha una persona amica che sta lottando in Lombardia contro il virus. “Io sono un meridionale, d’indole un po’ fatalista, non ho con la scienza un rapporto di totale affidamento illuminista – dice al Foglio una delle storiche firme di Repubblica – Tengo in enorme considerazione il ruolo degli scienziati: i tecnici vanno chiamati e ascoltati senza dimenticare che poi, in ultima analisi, spetta alla politica decidere. In Italia assistiamo da decenni al supplizio di una politica alla ricerca permanente di un supplente. Il virologo persegue un unico scopo: isolare il virus; non deve fare il ministro dell’Economia o del Turismo. Va perciò ascoltato lasciando che sia il politico a prendere le decisioni”. Come si è visto nel caso italiano, errori di comunicazione e azioni contraddittorie possono produrre giganteschi danni reputazionali per un paese. “La comunicazione, in generale, è stata gestita male. La trasparenza in sé è utile e pericolosa: il nome dei morti non viene diffuso per proteggere le rispettive famiglie, ci affidiamo perciò alle notizie che abbiamo, consapevoli di vivere in un paese dove la libertà di sapere è opportunamente coartata in nome del bene comune. Il virus però ha fatto anche dell’altro: ha patologizzato il sovranismo”. In che senso? “Il Covid19 mette in crisi la cretinocrazia e richiama in primo piano la competenza. Non abbiamo bisogno di un uomo forte a cui conferire poteri: serve una persona competente che dica la verità. Serve equilibrio per restituire fiducia a chi la merita. La paura delle persone di fronte a una minaccia concreta per la salute fa sì che la testa torni a prevalere su pancia e istinto. Il virus patologizza il sovranismo perché ti chiude dentro le pareti di una stanza. Vince la falsa idea che esista soltanto un uomo identificato nei suoi confini, autarchico, ristretto in uno spazio delimitato. La verità è che il mondo impazzisce in certi momenti della storia. Guardavo le immagini di ciò che accade al confine greco-turco dove torme di profughi di guerra, con diritto d’asilo, si ritrovano come in trappola tra i turchi, da un lato, e i greci, dall’altro. E proprio i greci – gli europei – reagiscono sparando e manganellando. Questa è l’Europa cristiana?”. 

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha difeso la linea dura di Atene definendo la Grecia “scudo d’Europa”. “Mentre noi siamo atterriti dal coronavirus, migliaia di famiglie siriane, in fuga dalla guerra, vengono fermate con il filo spinato, i fucili puntati, la pioggia di lacrimogeni. E i vertici dell’Europa si mostrano compatti nell’elogio di chi protegge i confini con ogni mezzo e a qualunque costo”. Stride il silenzio delle anime belle. “In altri momenti le persone sensibili, io le chiamo così, avrebbero protestato a gran voce ma adesso sono distratte dalla paura per la propria salute e per quella dei propri affetti. Il resto passa in secondo piano”. L’Italia sembra diventata la Wuhan d’Europa. “In una situazione difficile come quella che attraversiamo, dobbiamo attenerci scrupolosamente alle direttive impartite senza trasformare il principio di precauzione in una autentica ossessione.  C’è una certa psicosi, inevitabile, alimentata anche dalla imperizia della politica che si vestiva ora da operaio jungheriano, ora da milite della fatica. Matteo Salvini in divisa non è diverso dal premier che si presenta davanti alle telecamere nella sala bunker della Protezione civile”. L’Europa intanto si muove in ordine sparso. “L’Europa non c’è, ognuno fa quel che può. Gli eccessi andrebbero sempre evitati. Non oso immaginare che cosa accadrà quando il virus arriverà in mano ai sindacalisti: se lavori in un ufficio dove un collega ha un figlio o un parente sospetto, partirà l’embargo verso quel collega. I sindacalisti pretenderanno che tutti si sottopongano al tampone. E così ti sentirai processato per la sfortuna di avere un familiare malato”. 

Gli anziani sono le creature fragili di questa epidemia. “In realtà, sono i migliori in circolazione. Se vuoi ascoltare della buona musica, chi scegli se non Paolo Conte, Mina, Vasco Rossi, Ornella Vanoni? Se vuoi concederti un po’ di spensieratezza, a chi pensi se non a Renzo Arbore, Sofia Loren, Gianni Morandi, Roberto Benigni? La socialità degli over 60 è la più frizzante. Ma la ventilazione per un anziano può essere molto problematica, perciò è esposto a rischi maggiori. Se gli ospedali sono alle prese con la carenza di posti in rianimazione, una persona colpita da ictus rischia di non ricevere cure adeguate. E i medici, che stanno in contatto con i pazienti, sono chiamati a scegliere chi curare e chi no. Sono loro quelli in trincea: i medici, non i virologi”. L’uomo non è più onnipotente. 

Dalle parti di largo Fochetti, le riunioni di redazione si svolgono nella solita stanza ma la maggior parte dei giornalisti è in smart working. “Agli inviati nelle zone complicate – racconta al Foglio il direttore di Repubblica Carlo Verdelli – chiediamo di usare cautela, ma i giornali non si possono fare da casa con il telelavoro. Un quotidiano è come una nave: alcune manovre puoi effettuarle solo stando a bordo”. Lei come affronta la crisi? “Da cittadino sono preoccupato perché vedo che il quadro generale peggiora, l’Oms ha dichiarato la pandemia che si espande a macchia d’olio in tutto il mondo. Come direttore, non ho il minimo dubbio su che cosa debba fare un giornale: il nostro dovere non è quello di tranquillizzare le persone ma di fotografare la realtà per quello che osserviamo. Il paese è entrato in una terra incognita: non sappiamo quanto durerà, se, come e quando ne usciremo. Mai come in questi momenti servono pazienza e ragionevolezza”. Il virus ci tiene intrappolati in spazi claustrofobici dove manca il respiro. “Siamo entrati in una quarantena nazionale. Questa malattia tende a sigillare i confini degli stati e a creare zone blindate all’interno di ogni singolo stato, ma la chiusura è un riflesso ideologico totalmente antistorico. Rispetto alla comparsa del virus, esiste un prima e un dopo a livello mondiale: fino a quel momento, il mondo intero sembrava orientato verso traiettorie innovative come l’intelligenza artificiale, la conquista di Marte, la cybersecurity. Poi, di colpo, un virus mellifluo e apparentemente innocuo diventa il sassolino che inceppa la grandiosa macchina del progresso, e l’uomo non è più onnipotente, non è più il padrone assoluto della rivoluzione digitale e tecnologica. Il virus è subdolo perché sappiamo ben poco di lui: ha un basso tasso di letalità, non devasta l’organismo, nella maggior parte dei casi procura sintomi lievi o addirittura nulli, le vittime sono perlopiù anziani già affetti da altre patologie. Eppure questo esserino primordiale sta paralizzando il mondo”. 

Negli Usa, dove diversi stati hanno dichiarato l’emergenza, Donald Trump ha firmato un pacchetto da 8,3 miliardi di dollari per affrontare la crisi. E ha bloccato per primo i voli dall’Europa. “Oltreoceano le conseguenze del contagio possono essere devastanti. Com’è noto, il virus si diffonde rapidamente e il servizio sanitario americano è molto diverso da quello italiano dove chiunque può avere accesso alle cure, anche se sprovvisto di un’assicurazione. Se i focolai divampano, come si comporterà un presidente in corsa per il secondo mandato?”. L’amministrazione Trump sta valutando un piano straordinario per consentire a ospedali e medici di curare gratuitamente le persone senza assicurazione, come accade per i disastri ambientali. “Trump potrebbe vedersi costretto a ripristinare l’Obamacare che ha contribuito a smantellare, penalizzando gli interessi delle lobby delle compagnie assicurative che da sempre lo sostengono. Di certo, sanità e contenimento del virus entrano prepotentemente nel dibattito per la corsa alla Casa Bianca”. Lei ricorda choc paragonabili in tempi recenti? “Nessuno di simili proporzioni. Forse l’attacco alle Torri gemelle pietrificò il mondo con la stessa forza travolgente ma con una differenza fondamentale: all’indomani dell’11 settembre, il nemico da fronteggiare aveva una identità nota, perlomeno nei suoi tratti distintivi. Nel caso del coronavirus invece ci muoviamo in una terra completamente incognita, ignari di quel che ci aspetta domani”. La redazione di via Solferino è un punto d’osservazione speciale su Milano, la capitale morale d’Italia letteralmente “locked down”. “Quello che appariva inimmaginabile fino a qualche giorno fa è accaduto – dice al Foglio il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana – Al giornale cerchiamo di evitare l’affollamento, abbiamo ovviamente annullato gli eventi pubblici e gli accessi esterni. Milano non sembra più lei: una città abituata all’effervescenza sociale e culturale adesso appare come sospesa. Non si vedono i turisti, non si vedono i milanesi, che evitano i luoghi affollati e gli assembramenti umani, e i ristoranti sono chiusi. E’ vietato entrare o uscire dalla ‘zona di sicurezza’, se non in casi eccezionali e ‘comprovati’. Si vedono i militari per le strade, ed è nostro dovere rispettare pedissequamente le prescrizioni impartite. La città ha una straordinaria voglia di ripartire, siamo tutti in attesa del primo segnale positivo. La preparazione del giorno dopo è già cominciata. La rassegnazione non fa parte del dna milanese.  Ciò non toglie che il virus abbia già cambiato profondamente i piccoli gesti quotidiani. Questo pezzo d’Italia, abituato a trainare e a inseguire obiettivi sempre nuovi, riscopre un tempo lento, dilatato. A voler trovare un lato positivo, si può dire che scopriamo, per esempio, che numerosi spostamenti che puntellavano la nostra routine si possono evitare grazie alle moderne tecnologie digitali. Le riunioni da remoto riguardano anche tribunali e procure: se si cogliesse questa opportunità per imprimere una svolta nell’organizzazione della macchina amministrativa, sarebbe positivo”. Il virus disvela anche la fragilità umana davanti alla malattia. “Il mondo globalizzato è intessuto di connessioni: i virus viaggiano senza barriere. Il confronto con le epidemie del passato, ben più letali di questa, non regge perché all’epoca l’aspettativa di vita era sensibilmente inferiore. Nella società contemporanea le persone godono, in generale, di ottima salute grazie ai progressi della medicina e del servizio sanitario: il virus mette in discussione questa certezza. Se in passato la morte era compagna fissa dell’esistenza, oggi si fa fatica a elaborare l’idea stessa di non esserci più. Ci credevamo invincibili ma non lo siamo”. Agli occhi del mondo, gli italiani sembrano i cinesi d’Europa. “L’interrogativo su cui riflettere è se abbiamo lanciato un allarme eccessivo o siamo stati i più seri di tutti. Probabilmente, in altri paesi, molte morti per polmoniti gravi sono state trattate e classificate come decessi generici, pur non essendo slegate dal virus. Nella prima fase della gestione dell’emergenza in Italia abbiamo assistito, senza dubbio, a momenti di confusione, a decisioni non coordinate che hanno diffuso la sensazione di non saper fronteggiare la situazione in modo adeguato. 

Adesso il clima è cambiato perché la situazione è precipitata ovunque, si discute addirittura se non sia stato un cittadino tedesco il primo europeo ad aver contratto l’infezione e ad averla trasmessa. Tutti i paesi stanno mettendo in campo misure di contenimento”. Quando l’Italia aveva già effettuato 21 mila tamponi, Germania e Francia erano sotto i mille. “Ciò ha influito nella percezione generale. Non so se siamo stati più sfortunati o più trasparenti realizzando uno screening così esteso, senza nascondere le morti sospette”.

Il contagio economico rischia di essere più letale del virus? “I danni per la nostra economia, orientata verso le esportazioni, saranno notevoli. A Milano il Salone del mobile è stato rimandato a giugno, come ogni altro evento e fiera. Viviamo in uno stato innaturale delle cose”. A livello europeo c’è chi sfrutta le difficoltà italiane per porre vincoli e divieti al nostro export agroalimentare: la richiesta di certificazioni virus-free, le fake news su mozzarelle e pizze contaminate. Devo riconoscere che l’Europa come comunità ha dato una pessima prova in questo frangente, non c’è stato alcun segno concreto di solidarietà. L’adozione di misure comuni di contenimento avrebbe garantito uniformità di comportamenti evitando che alcuni paesi fossero più esposti di altri. Dobbiamo prendere atto che quella attuale è l’Europa degli stati dove ognuno cerca di far valere i propri interessi anche approfittando delle avversità altrui. Nelle prossime settimane, superata l’emergenza, bisognerà mettere in piedi una massiccia campagna di comunicazione per rilanciare l’immagine di un paese che funziona”. Oltreoceano il virus avrà ricadute nella corsa per la Casa Bianca? “Molto dipenderà dalla intensità del contagio. Sulle prime il presidente Trump ha affrontato la questione con superficialità, l’aveva sottovalutata, invece il virus va preso sul serio. In un sistema dove, in assenza di assicurazione sanitaria, è difficile avere accesso alle cure, va scongiurato il rischio che una porzione della popolazione rimanga tagliata fuori”. 

Restando dalle parti di via Solferino, Aldo Cazzullo, scrittore e firma del Corriere, ci spiega che grazie alla vita in quarantena si compie una sorta di “igiene” del nostro tempo: “Ci rendiamo conto, all’improvviso, che almeno la metà delle cose che facciamo sono letteralmente inutili. Vediamo molte persone che faremmo volentieri a meno di vedere. Sprechiamo una montagna di tempo”. La vita a un metro come viatico per la “santificazione” del tempo. “E’ il bene più prezioso che abbiamo: dovremmo imparare a concederlo solo a chi lo merita davvero. Rallentare il ritmo non è per forza negativo, mi preoccupano di più le conseguenze per l’economia e per i posti di lavoro che già scarseggiano nel nostro paese. Un cambio di abitudini temporaneo, finalizzato a contenere la propagazione del virus, non è di per sé scandaloso. Del resto, a infettarsi più degli altri sono le professioni che comportano una dose di socialità: giornalisti, medici, infermieri. Se c’è una cosa bella del nostro mestiere, è vivere la vita degli altri. Rallentare il ritmo può fare bene”. Per chi è workaholic, non è semplice. “Anche io sono workaholic, anche a me questa incertezza genera un filo di ansia, ma dobbiamo vincerla. I francesi usano l’espressione ‘prendre du recul’, nel senso di prendere distanza da noi stessi, dalle nostre abitudini, dai nostri ritmi frenetici. Ritagliamoci del tempo per leggere un libro, per ascoltare della buona musica. Cambia anche la dimensione familiare perché ora i figli restano a casa, e noi genitori facciamo fatica a comunicare con loro. Pieghiamoci sul solco delle loro vite: parliamoci, ascoltiamoci, riscopriamo i rapporti umani. Ho trascorso qualche giorno a Londra, quando era possibile, e non mi sono sentito trattato come un untore. Gli italiani non sono diventati gli untori agli occhi del mondo, non scherziamo”. 

Se un presidente del Consiglio punta il dito, pubblicamente, contro un ospedale locale, non c’è da stupirsi che la Cnn titoli sull’“ammissione” del governo italiano. “A Codogno sono stati commessi evidenti errori ma è chiaro che, se lo dice il premier, all’estero si trasmette l’idea di un sistema sanitario non all’altezza, il che per giunta è falso: i nostri medici e infermieri stanno compiendo sforzi eroici e non se lo meritano”. In casa la tv ci tiene compagnia.

Annalisa Chirico - Il Foglio - 18 marzo 2020

 

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L’incertezza del diritto è l’unica certezza, investitori stranieri in fuga

Roma. L’avvocato Franco Gianni fa parte di quella minoranza dorata che, all’interno di una professione affollatissima, si distingue per competenza, visione strategica e una straordinaria rete di relazioni internazionali. Fondatore con Gian Battista Origoni di uno dei più prestigiosi studi legali italiani, con 480 avvocati e diverse sedi nel mondo, Gianni è tra i massimi esperti di finanza strutturata e, negli ultimi anni, ha seguito da protagonista le principali privatizzazioni, grandi fusioni e quotazioni in Borsa. “La certezza del diritto – dichiara il principe del foro al Foglio – riveste una rilevanza primaria per soggetti che vivono a migliaia di chilometri di distanza, che conoscono poco il nostro paese e devono decidere dove effettuare investimenti da centinaia di milioni di euro. Il dubbio che l’Italia non dia le rassicurazioni basilari a stranieri interessati all’ingresso nel paese influenza scelte fondamentali per lo sviluppo economico. E, ovviamente, questo dato scoraggia gli stranieri ma non invoglia neanche gli imprenditori nazionali a sviluppare nuove attività o a rafforzare l’esistente”. Con una crescita dello 0,3 per cento, l’Italia si conferma fanalino di coda in Europa. “Abbiamo bisogno di riattivare rapidamente un ciclo economico espansivo e, a mio avviso, non è sufficiente far riferimento solo ad un maggiore impegno statale negli investimenti infrastrutturali; dobbiamo ritornare ad attrarre anche capitali privati dall’estero oltre che rassicurare gli imprenditori domestici incoraggiandoli verso piani espansivi. A tale scopo, occorre ottimizzare alcuni fattori cruciali come la certezza del diritto, la riduzione dei tempi processuali e l’avvio di un serio e concreto processo di de-burocratizzazione”. Il vostro è uno studio internazionale, con sedi a Londra, Shangai, Abu Dhabi… Lei stesso è iscritto all’Ordine degli avvocati di Roma e al New York Bar. Insomma, avete una visione globale. “Nella mia ultra trentennale esperienza professionale ho più volte constatato come un contesto normativo certo e stabile è fondamentale per incoraggiare gli investitori, specialmente quelli stranieri che hanno la possibilità di scegliere il paese dove investire. Non ci dobbiamo stupire se il tema, forse principale, per l’investitore è la certezza del diritto civile, penale e fiscale: quando si decide di effettuare un investimento è necessario fare affidamento su un sistema di regole chiare, che non cambino in corso d’opera e consentano una programmazione di medio e lungo termine”. Che cosa le suggerisce la sua esperienza sul campo? “Quello che ho appurato assistendo operatori internazionali di tutti i tipi è suffragato da studi e ricerche internazionali. Secondo l’Aibe Index, l’indice sintetico realizzato dall’Associazione delle banche estere (con la collaborazione del Censis), nella classifica delle prime dieci economie mondiali con la maggiore capacità di attrazione di investimenti esteri noi siamo solo ottavi. Tra i fattori che un investitore estero prende in considerazione nella scelta di un paese si collocano ai primi posti la certezza del quadro normativo, e il nostro paese su questi aspetti raggiunge punteggi assolutamente mediocri. Creare un contesto normativo più prevedibile, stabile e chiaro è cruciale”. L’indice sulla competitività, stilato annualmente dalla Banca mondiale, conferma la sua analisi. Il fatto è che la politica non interviene, anzi alimenta l’incertezza. “Alcuni anni fa, sono stato invitato ad una riunione organizzata da Confindustria e dall’allora governo per commentare un’indagine sull’appetibilità del nostro paese agli occhi degli investitori esteri. Alla riunione partecipavano venticinque amministratori delegati di grandi multinazionali, un ministro, alcuni alti funzionari governativi e i rappresentanti confindustriali che avevano redatto il questionario. L’iniziativa, assolutamente lodevole, non aveva purtroppo precedenti. L’esponente del governo, esaminando le risposte contenute nel rapporto, sembrava stupito che il tema avvertito come principale ostacolo a nuovi investimenti non fosse, come si poteva immaginare, il costo del lavoro, la mancanza di moderne infrastrutture, l’eccessivo peso della burocrazia, ma la mancanza di certezza del diritto”. Ieri, sulle colonne di questo giornale, Marcella Panucci, dg di Confindustria, ha ricordato che in Italia occorrono 1.295 giorni per un procedimento civile di primo grado. Siamo al 157esimo posto su 183 paesi secondo la Banca mondiale. “Temi altrettanto sentiti da parte degli imprenditori e strettamente collegati al concetto di certezza e stabilità delle scelte imprenditoriali sono la durata dei processi, sia civili che amministrativi, e l’efficiente funzionamento della burocrazia. Non dobbiamo sorprenderci se dalle ricerche effettuate fattori ‘respingenti’ per un investitore sono i tempi della giustizia civile e amministrativa, così come il carico normativo e burocratico. In Italia il corpo normativo primario e secondario (leggi e regolamenti) è un multiplo di quello vigente in paesi nostri concorrenti appartenenti all’Ue. Troppo spesso le norme approvate dal Parlamento sono costituite da pochi articoli suddivisi in centinaia di commi, che a loro volta richiamano un numero impressionante di altre norme; insomma, anche per professionisti abituati a lavorare con i testi legislativi, spesso la lettura degli stessi è inutilmente complicata e fonte di confusione”. Un guazzabuglio che opprime anche gli animal spirit nazionali. “Certo, queste difficoltà riguardano anche gli imprenditori nazionali. Quante volte mi capita di sentire clienti italiani che lamentano le difficoltà burocratiche e i tempi lunghi richiesti dal nostro ordinamento, rispetto a quanto necessario, non in paesi in via di sviluppo, ma in paesi confinanti con il nostro. Non è quindi sorprendente rilevare, da una parte, che i nuovi investimenti nel paese vanno a rilento e, dall’altra, che si è assistito a una massiccia delocalizzazione della produzione, determinata non solo da fattori di costo, o dal desiderio di sviluppare nuovi mercati geografici (scelta quest’ultima assolutamente positiva), ma molto spesso per poter raggiungere obiettivi industriali in tempi più ragionevoli”. Il diritto è incerto anche perché assistiamo sovente a sentenze imprevedibili e difformi che aumentano il tasso di aleatorietà normativa. “Facciamo i conti con una eccessiva frammentazione decisionale derivante da pronunce giurisprudenziali che sul medesimo argomento procedono in direzioni diverse. Ciò è vero per la giustizia civile, anche se la Cassazione riporta spesso ad unità le pronunce delle corti di merito (purtroppo in tempi spropositatamente lunghi), ma anche per i tribunali amministrativi. Accade infatti che il Tar della regione X assuma una posizione divergente dal Tar della regione Y. Vorrei sottolineare che non si tratta di casi teorici e sporadici; capita, infatti, che un’attività economica riconosciuta legittima in una regione venga ritenuta illegittima in un’altra e comporti la sospensione della stessa, con il conseguente impatto sulla generazione di produzione e di lavoro. E’ vero che il Consiglio di stato riporta ad unicità le pronunce del Tar, ma nel frattempo l’imprenditore che si è localizzato nella prima regione può sviluppare il proprio investimento come programmato, mentre il secondo dovrà attendere qualche anno fino a quando si sia pronunciato il secondo grado. Insomma, anche questi casi contribuiscono a rendere poco prevedibile la decisione di investire nel paese”. Questo sistema sarà mai riformabile? “Deve esserlo, solo così potremo accelerare la ripresa economica. L’augurio è che il legislatore presti maggiore attenzione al tema della certezza del diritto in tutte le sue declinazioni. E insisto nel dire che ciò consentirebbe non solo di attrarre più investimenti esteri ma incoraggerebbe anche gli investimenti da parte dei capitali italiani”.

Annalisa Chirico - Il Foglio – 19 febbraio 2020

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