Il delitto perfetto nascosto in quei conti

Se avete una settimana di vacanza, potreste trascorrerla sul sito web del Senato. Dove campeggiano i testi della nuova legge di bilancio: 3 tomi, 2 allegati, 14 tabelle. Il terzo tomo riempie 867 pagine; la prima tabella s’allunga per 1632 pagine, divise in 2 sezioni.

Se ci mettete un po’ d’applicazione, magari vi resta libera pure la domenica. D’altronde la legge conta soltanto 119 articoli, sia pure infarciti di millanta commi.

E d’altronde, in Italia, è ormai la regola: nessuna legge di bilancio viaggia sotto il mezzo milione di caratteri.

In questo caso il Consiglio dei ministri aveva generato la creatura il 15 ottobre scorso, «salvo intese».

Un’approvazione disapprovante, mettiamola così. Ma nel frattempo le intese devono essere state fraintese, giacché sulla V commissione del Senato sono piovuti quasi 5 mila emendamenti, in gran numero per mano della stessa maggioranza di governo. Fra gli emendamenti commendevoli: l’Iva agevolata per i profilattici (5 Stelle); quattrini per promuovere il razionalismo in architettura (Lega); più korrepetitor al pianoforte (Forza Italia); videocamere per tutti (Pd); sconti sulle tute da motociclista (Lega).

Ma questa storia ha sempre un esito obbligato: il parlamentare emenda, il governo maxiemenda. Nel senso che, alla fine della giostra, scatta la tagliola del maxiemendamento cucito nelle stanze di Palazzo Chigi.

Un solo articolo, magari con dentro 1365 commi, come accadde nel 1995 al governo Prodi. Dunque un solo voto, prendere o lasciare. E al contempo un voto di fiducia, dunque se il parlamentare lascia ci rimette la poltrona.

Succederà pure quest’anno, si accettano scommesse.

Succederà nell’aula del Senato, dove la legge di bilancio approda questa settimana. O al limite alla Camera, se la maggioranza tergiversa. Intanto il governo si è portato avanti con un mini-maxiemendamento, presentato in commissione. Cioè un emendamento a grappolo, come le bombe. Tocca una quantità d’articoli (non tutti), e li sommerge di parole: 3024.

Da qui un verbale di denuncia, ammesso che i carabinieri intendano accettarlo. Del resto il delitto dura ormai da molto tempo, magari è caduto in prescrizione.

Anche se l’omicidio, stando al codice penale, dovrebbe risultare imprescrittibile. Stavolta si tratta d’un femminicidio: ne è vittima la Costituzione, povera donna. Che fin dal suo primo articolo promette un sistema democratico, fondato sulla sovranità popolare.

Ma non c’è democrazia se le leggi, come diceva Hegel, sono appese tanto in alto da non poter essere lette. Non c’è sovranità del popolo se quest’ultimo viene tenuto all’oscuro circa le decisioni di governo, essendo formulate in una lingua incomprensibile. E non c’è più nemmeno legge, quando la legge non si legge.

Finché da ultimo, con il maxiemendamento, si consuma il delitto perfetto: quello che uccide gli eletti, oltre agli elettori. E che lascia esanimi i garanti delle regole, oltre a chi le aveva approvate. In primo luogo, infatti, ne va di mezzo la libertà dei parlamentari, costretti a un voto in blocco, senza poter distinguere cavoli e cavalli. In un referendum popolare non potrebbe mai succedere, giacché la Consulta (sentenza n. 16 del 1978) ha vietato i quesiti eterogenei, per non imbavagliare l’espressione del voto. In una legge parlamentare, invece, succede di frequente.

E in secondo luogo questo malcostume paralizza l’azione dei garanti. Se il capo dello Stato rifiutasse di promulgare la legge di bilancio cadremmo nell’esercizio provvisorio, con tutti i guai che ne conseguono. Se la Corte costituzionale l’annullasse soffriremmo guai perfino peggiori. Sicché a entrambi non rimane che abbozzare, praticando la dottrina del male minore.

Che tuttavia è pur sempre un male, mica un bene.

Come il degrado delle forme, delle procedure, da cui dipende la qualità della vita democratica. Nel nostro caso, è una democrazia maleducata.

Michele Ainis – la Repubblica – 9 dicembre 2019

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