Appunti per trattare sul Mes

“Non capisco l’allarmismo sul Fondo Salva Stati, l’Italia non è la Grecia. Cerchiamo di ottenere qualcosa in cambio”. Parla di direttore generale di Bankitalia, Fabio Panetta.

Fabio Panetta non è solo direttore generale della Banca d’Italia ma anche membro del Board della Bce (sebbene la procedura di nomina deve ancora essere completata). In questi due ruoli, sarebbe interessante sentire la sua versione sulla questione del Fondo salva stati o Mes.

- Il governatore Ignazio Visco ha detto che questa riforma apporta dei benefici ma anche grandi rischi.

Banca d’Italia non deve valutare se il paese dovrà o meno sottoscrivere un trattato internazionale. Noi possiamo fare una analisi tecnica e dare la nostra valutazione su cosa c’è scritto in quel trattato. Prima di tutto bisogna capire se si parla di livelli o di variazioni, perché il trattato nella sua forma attuale è molto, ma molto simile alla versione precedente. Il Mes non sorge dal nulla oggi. Prima si chiamava European Financial Stability Fund – nome diverso per indicare la stessa cosa – e opera ormai da 10 anni, è una istituzione intergovernativa europea che è intervenuta per esempio nel caso della Grecia. Vi è stata una lunga discussione se modificare alcune norme. Giovanni Tria ha spiegato che vi erano delle spinte per modificare queste norme di funzionamento del meccanismo in modo per noi sfavorevole. Si proponeva da parte di alcuni paesi di introdurre delle norme con degli algoritmi, delle regole, dei meccanismi per valutare se un paese è solvibile o meno. Ma questa proposta non è passata. Io vedo il Mes nella forma attuale come una rivisitazione di una istituzione già esistente, in cui si fornisce e si chiarisce la base legale per dei meccanismi di intervento. Cosa fa il Mes: interviene nel caso ci fosse una crisi bancaria, per fornire dei finanziamenti a questo fondo europeo che già ha l’incarico di intervenire. Se questo fondo finisse le sue disponibilità interverrebbe il Mes, che è finanziato dai governi, e quindi ha una capacita di intervento, una potenza di fuoco maggiore. La seconda cosa che fa è molto simile a quello che fa il Fondo monetario internazionale a livello mondiale. Se c’è un paese che ha delle tensioni finanziare, può intervenire con un prestito o con una linea di credito. Prestito vuol dire che si danno i soldi, la linea di credito vuol dire che si fa un accordo perché i soldi possano essere utilizzati dal paese in difficoltà qualora ne avesse bisogno. Nel trattato non vi è menzione della ristrutturazione del debito, non vi è la menzione del default, non vi è automatismo tra l’intervento del Mes e la ristrutturazione del debito. Ma poi, a noi cosa ce ne importa, noi non dobbiamo ricorrere al meccanismo di stabilità, l’Italia non solo ha accesso al mercato ma, fino a una certa scadenza, l’Italia è pagata per indebitarsi. Quindi, tutta questa agitazione io personalmente non l’ho capita. Ci sono delle modifiche di carattere tecnico su alcune clausole che devono essere inserite nei titoli di nuova emissione. Ma per noi non cambia nulla, perché (purtroppo) abbiamo un mercato del debito pubblico molto grande e quindi l’intervento tecnico che si fa per evitare dei comportamenti opportunistici non cambia la sostanza per l’Italia. Da un punto di vista tecnico, quello che c’era nel vecchio funzionamento del meccanismo di stabilità lo ritroviamo adesso, alcune variazioni a noi sfavorevoli non ci sono più. Poi se il governo vuole aderire o meno, io non ho nessuna autorità per discuterlo e la Banca d’Italia non fa questo. Se da libero cittadino fossi io a dover trattare, penso che utilizzerei questa trattativa per aver qualcosa in cambio. Una parentesi: l’Italia è il terzo paese finanziatore di questo Meccanismo di stabilità. Quindi, proteggere i creditori – e noi siamo un creditore – è una cosa buona e giusta, tutti i creditori vogliono essere protetti. Anche noi. Non dobbiamo preoccuparci se i creditori sono più protetti di prima. Perché anche noi siamo paese creditore e non c’è all’orizzonte la possibilità di ricorrere al Mes. L’Italia si indebita con facilità sui mercati internazionali, viene addirittura pagata per reperire fondi a scadenza a 4/5 anni e a 10 anni paga l’1 per cento. Qualche anno fa avremmo sognato di trovarci in questa situazione. Bisogna ottenere qualcosa in cambio ed è anche quello che ha detto il governatore Visco, non possiamo sempre fare gli accordi europei a pezzi e bocconi, un pezzo alla volta, perché alla fine rischiamo di avere il peggio di tutto. Per esempio, è in discussione la revisione dell’Unione bancaria? Cerchiamo di trovare un accomodamento nell’equilibrio generale che ci favorisca. Oppure, temiamo che il Mes possa essere utilizzato in modo sfavorevole contro di noi? Per esempio, qualcosa che nessuno ha notato è che attualmente il presidente del Mes è un economista tedesco – persona di grande valore, persona molto seria – ex direttore generale per gli Affari economici della Commissione europea, che però tra due anni scade. Ebbene, candidiamo uno dei nostri valenti ex ministri, una personalità istituzionale di alto livello anche a livello europeo, per esser certi che per una posizione cosi di riguardo non ci siano utilizzi o abusi di quel meccanismo, quando si fa una trattativa bisogna avere un obiettivo in mente, se si dice di no e basta, forse si sbaglia”.

- Lei è stato critico anche del cosiddetto bail-in – la riforma delle risoluzioni bancarie – perché anche quello poteva comportare dei rischi al nostro sistema. E’ ancora di quella opinione? E un’altra cosa che si collega a quello che ha detto prima: ci vuole più coraggio a sedersi a un tavolo e a trattare in Europa o a dire di no e astenersi, e cosa è più dannoso o profittevole per il paese?

Lei ha ragione, io nonostante la mia giovane età ho una lunga esperienza, e molte delle trattative che ho fatto in Europa le ho fatte con Calenda che allora era ambasciatore a Bruxelles, e con il ministro Gualtieri, che allora era membro del Parlamento europeo. Sul bail-in molti sono stati i critici, non tanto dell’idea in sé, perché l’idea alla base del bail-in credo sia ragionevole: vi è una banca che si indebita, e per indebitarsi remunera i suoi creditori a dei tassi che sono diversi a seconda del rischio. Credo sia ragionevole che poi a quel maggior rendimento, quando poi le cose vanno male, a quei maggiori rendimenti corrispondano dei maggiori oneri. Il problema è che bail-in è stato introdotto contro ciò di cui si è discusso per molti anni, senza una fase di transizione. Questo vuol dire che fino al 2014 chi comprava titoli subordinati delle banche, o il depositante di una banca, non sapeva e non poteva sapere, perché non vi era la possibilità, di essere coinvolto nelle difficoltà della banca in caso di crisi. Poi c’è stata una lunga polemica, abbiamo dovuto pubblicare documenti formali in cui inoltravamo il nostro parere al governo: se il principio che si è scelto politicamente a livello europeo – ce ne sono altri che io avrei preferito per intervenire in caso di crisi bancaria – è quello per cui chi ha maggiori vantaggi quando le cose vanno bene ha anche maggiori oneri quando le cose vanno male, allora rendiamo chiaro a chi sottoscrive una passività bancaria, un deposito, una obbligazione ordinaria e subordinata, che da oggi in poi ci sarà quel rischio. Chi ha sottoscritto in alcuni casi le obbligazioni che sono state oggetto di intervento di risoluzione di bail-in, o meglio di burden sharing quando sono obbligazioni, chi ha avuto una riduzione o un annullamento del valore dei suoi investimenti aveva investito in quei titoli 10 anni prima, quando le norme erano diverse. Questa è l’applicazione retroattiva delle norme sul bail-in, di un criterio che, a regime, quando tutti avranno sottoscritto dei contratti sapendo di poter essere oggetto di una riduzione del valore del proprio investimenti, io non avrei nessuna difficoltà ad accettare. Invece, il bail-in lo abbiamo introdotto sull’onda della rabbia successiva alla crisi bancaria, crisi bancaria che in molti paesi del mondo ha comportato costi enormi per le finanze pubbliche in alcuni paesi come Germania, Olanda Stati Uniti, Spagna, Regno Unito, Irlanda, Grecia. Ma non da noi. Quella rabbia però ha tracimato, è stata una tendenza incontenibile, ha portato a una reazione, secondo me rabbiosa, con un eccesso dall’altra parte, senza una transizione, senza mettere i risparmiatori e gli investitori – grandi e piccoli – nella condizione di conoscere per bene i vantaggi e i potenziali svantaggi in condizione di crisi dei suoi investimenti”.

- Lei citava crisi e reazioni isteriche rispetto alla riforma del Mes. Questo isterismo rischia di trasformarsi in profezie che si autoavverano? Oppure è la riforma del Mes in sé a essere problematica?

Purtroppo sono d’accordo perché l’Italia non è il paese più indebitato in Europa. Alcuni hanno un debito pubblico simile al nostro, un paio anche più elevato, altri grandi paesi hanno un debito inferiore al nostro ma molto corposo. Questa discussione è scoppiata soltanto in Italia, per motivi metaeconomici, non certamente per le caratteristiche di funzionamento del Mes. Dovrò effettuare un’audizione presso il Parlamento europeo per la possibilità di avere questo incarico presso la Bce e ho ricevuto molte chiamate di persone che mi chiedono perché siamo così preoccupati, qual è il nostro problema. Francamente non lo so. Un paese entra in condizione di sofferenza, e poi anche di crisi, quando essendo naturalmente lo stato un debitore, non riesce più a finanziarsi sul mercato. Questa è la condizione che ha colpito e ha mortalmente messo in ginocchio prima la Grecia e poi l’Irlanda. Entrambe avevano perso accesso al mercato oppure, con un disavanzo estero molto elevato, vendevano all’estero molto poco e compravano molto, con uno sbilancio della bilancia commerciale. Non riuscivano più ad andare sul mercato. L’Italia questo problema non ce l’ha, nei momenti peggiori abbiamo avuto accesso al mercato con condizioni penalizzanti. Oggi i bot e i btp a un anno si emettono e chi li compra ci paga. E’ vero che può succedere di tutto, ma preoccuparci oggi come se dovessimo ricorrere al Mes è una cosa che non ho capito. Bisogna ottimizzare nella trattativa, nella negoziazione: quando uno negozia si mette al tavolo, ascolta tutti, dice la sua e chi si scoccia per ultimo alla fine porta a casa qualcosa. Così ho visto che più o meno funziona”.

- La cosa un po’ contraddittoria è che mentre c’è tutto questo timore sembra che non ce ne sia sul fatto questo debito nel frattempo cresce. E poi, lei diceva: accettiamo il Mes e chiediamo condizioni migliori su altri campi, come l’Unione bancaria e l’Unione fiscale. Quali sono secondo lei le cose più importanti per l’Europa – come membro del board della Bce – e anche per l’ Italia – in veste di direttore generale della Banca d’Italia?

Bisogna dire che dall’avvio della crisi del 2008, negli ultimi anni il debito pubblico è tornato a crescere in modo molto deciso. Quello che conta non è il valore assoluto del debito ma il rapporto tra debito e pil. Bisogna dire che, se si scompone contabilmente questo aumento del rapporto tra debito e pil, è in gran parte dovuto al fatto che abbiamo avuto una recessione violentissima e poi una crescita molto molto lenta, insoddisfacente. I salti mortali per tenere sotto controllo i conti hanno avuto successo: il problema è che si è alterata la composizione della spesa in favore delle spese correnti e si sono penalizzati gli investimenti. Ovviamente questo penalizza negli anni successivi l’unica via d’uscita dall’alto rapporto debito/pil, ovvero la crescita. C’è stata una qualche prudenza fiscale, si è tenuta la spesa primaria corrente, negli ultimi 5 anni è cresciuta dell’1,5 per cento mentre era cresciuta più rapidamente nel decennio precedente, Il problema è stata la doppia recessione e poi la stagnazione successiva. Quando si deve tagliare la spesa per tenere sotto controllo i conti, è più facile tagliare la spesa per investimenti (invece della spesa corrente), perché dei danni ce ne accorgiamo domani, se tagliamo la spesa corrente invece ce ne accorgiamo subito. Cosa si può fare per negoziare a livello europeo? Credo innanzitutto che lo stallo a livello europeo si è registrato perché per mettere in comune sempre di più – molto poco ancora, ma in prospettiva sempre di più – le finanze pubbliche, per mettere in comune gli interventi e gli strumenti di intervento in favore delle banche, gli interventi in favore della competitività e della convergenza, si vuole essere certi che gli stati con cui ci mettiamo d’accordo non abbiano delle condizioni finanziarie troppo deboli, perché alcuni paesi del nord temono che facendo degli accordi con l’Italia, paese che per qualcuno in futuro avrà problemi di sostegno finanziario, non si può fare, non è per loro conveniente. Quindi c’è questa discussione fra risk reduction e risk sharing di cui parlano tutti i giornali europei. Ora noi dovremmo far presente che non vi è una sequenza – non si può dire: prima riduciamo tutti i rischi e poi li mettiamo in comune – e che la riduzione dei rischi sarebbe molto più facile, molto meno costosa, molto più rapida se noi avessimo una condivisione per la teoria della diversificazione. Nel caso dell’Unione bancaria si parla di due rischi: il rischio di credito e il rischio sovrano. Nel primo rientrano quelli tipici delle banche commerciali nei paesi che hanno avuto una recessione e che come mestiere danno prestiti alle imprese. In recessione, le imprese sono in difficoltà e in quella condizione emergono quelle che si chiamano le sofferenze bancarie – sofferenze in realtà dei debitori – e sono crediti inesigibili (per le banche) a livello europeo. La discussione sulla riduzione del rischio si è amplissimamente concentrata sui rischi di credito, ma non si parla di rischi di antiriciclaggio. Vi sono molti paesi – ma non l’Italia – che hanno dei rischi insiti nelle attività delle banche in tema di riciclaggio molto molto elevati. Una banca che ha rischi di credito può essere in difficoltà ma ci mette un po’ per avere problemi seri. Invece, quando una banca è oggetto di indagini su rischi antiricilaggio si squaglia, la banca implode. Abbiamo visto nel caso di una banca danese, di una banca lettone: una banca si liquefà quando vi è rischio di riciclaggio, e di questo non si parla. Poi vi sono i rischi di mercato: i modelli bancari differiscono tra paesi: in alcuni stati come l’Italia le banche preminentemente effettuano attività di credito al sistema delle imprese. in altri paesi le banche fanno attività di banca di investimento. Il che le porta – legittimamente – ad avere un maggiore coinvolgimento nel mercato dei derivati, quello degli swap, in mercati dove vi sono dei rischi finanziari molto molto elevati. La crisi finanziaria nasce da questi rischi, non nasce dai rischi creditizi ma da tutti i prodotti derivati, strutturati, che in America hanno mandato le banche gambe all’aria. Quelle banche hanno mandato a gambe all’aria l’economia, poi la crisi ha tracimato, ha colpito l’Europa – non l’Italia – ha colpito le banche e poi l’economia. Ora ci stiamo preoccupando dei rischi creditizi, che è una cosa ragionevole, ma non ci preoccupiamo degli altri rischi di attività di antiriclaggio. Dovremmo avere un po’ più di oggettività e guardare tutti i rischi. Questo si può discutere”.

- Ci sono garanzie che salvaguardano l’Europa, ma dovremmo far pesare queste garanzie su altri tavoli.

In generale, se riusciamo ad avere condivisione dei rischi e a imporci regole ragionevoli e poi le rispettiamo tutti – poi ne beneficiamo tutti. Abbiamo fatto l’Unione economica, non esiste nessuna contrapposizione Italia-Germania: ci si mette insieme per allargare la dimensione della torta e a parità di percentuale staremo tutti meglio. Questo concetto che ‘spezzeremo le reni ai tedeschi’ non esiste. Abbiamo ampliato il nostro mercato e la speranza di tutti è che cresca molto la Germania perché adesso che ha una crescita molto, molto bassa, anche l’Italia sta rallentando. L’Italia ha come principale mercato di sbocco proprio la Germania, quando a Berlino le cose vanno male per noi è un problema, non dobbiamo essere contenti. Auguro alla Germania di crescere del 10 per cent, così noi cresceremo del 5 per cento”.

- Come si crea un clima di maggior fiducia per trovare soluzioni condivise?

Questo è esattamente il problema che stiamo vivendo. Io partecipo alle riunioni di istituzioni europee ormai da 20 anni. Vivo fra Roma, Francoforte e Bruxelles. Quando è partita l’Unione monetaria 20 anni fa, vi era uno spirito molto positivo. Si discuteva di problemi europei – anche nel direttivo della Bce – con Fazio, con Draghi poi con Visco e vi era uno spirito, una attitudine molto positiva. L’Unione europea è un’area valutaria sub-ottimale, vuol dire che per funzionare bene deve avere istituzioni che la rendono efficiente. Non vi è una condivisione dei rischi attraverso i mercati, non c’è mobilità del mercato del lavoro, non c’è bilancio pubblico unico. Si è formata una Unione monetaria con l’idea che si sarebbero poi create le istituzioni che l’avrebbero resa ottimale ed efficiente. Cosa è successo? Negli anni iniziali dell’euro abbiamo avuto una crescita dell’economia mondiale. L’Europa, essendo orientata all’export, cresceva anch’essa a ritmi alti. Avevamo il vantaggio della riduzione dei tassi di interesse, legata all’Unione monetaria. Così ci siamo un po’ rilassati, ci siamo un po’ tutti convinti che le cose andavano bene e tutto sommato non fosse così urgente fare altre riforme. Ma non era quello che chi ha disegnato l’Unione europea aveva in mente. Io ricordo quello che scriveva Ciampi quando era governatore della Banca d’Italia e anche dopo, come presidente della Repubblica: facciamo questa cosa, poi dobbiamo spingere sull’acceleratore per le riforme ulteriori che saranno necessarie. Poi è scoppiata la crisi finanziaria, in modo molto inatteso, non se lo aspettavano gli economisti a livello internazionale. E con la crisi finanziaria si è ricominciato a parlare di interessi nazionali, soprattutto quando la crisi finanziaria è diventata una crisi dei debiti sovrani, degli emittenti pubblici. E quando questa ha colpito le banche chiamando in causa la finanza pubblica, lì si è rotta quella concordia che c’era stata fino a un certo punto. Molti si sono riappropriati delle istanze nazionali. Si è cominciato a confrontarsi, a discutere di rischi, di bilanci, si è cominciato a diffidare. La crisi in Europa è diventata fortissima quando si è congelato letteralmente il mercato interbancario, perché le banche tra di loro non si prestavano più i soldi. E la Bce dovette intervenire nel 2008 inondando il mercato di liquidità perché le banche non si finanziavano tra di loro. Quella era sfiducia, nessuno si fidava di chi aveva di fronte, neanche tra operatori specializzati: quella sfiducia si è via via trasferita a livello politico e si sta trasferendo anche ora a livello sociale, tra paesi, tra gruppi sociali, tra gruppi politici. Come si supera questo? Non è un problema tecnico ma un problema di leadership politica. In questi anni – questo lo esprimo come cittadino e non come direttore generale di Banca d’Italia – credo sia mancata in giro per l’Europa una leadership che spingesse per il proseguimento, per il rafforzamento, per il miglioramento di questo disegno europeo. Ci siamo tutti rintanati nelle nostre economie nazionali cercando di capire come potevamo ottenere qualcosa non insieme agli altri ma ognuno a scapito degli altri. Quello che sta succedendo è che stiamo litigando a volte sul nulla, perché letteralmente non ci si fida. Molti non sanno di cosa si sta parlando e quindi nel dubbio non mi fido e non approvo quello che proponi. E’ un po’ quello che succede anche nella vita, ma non dovrebbe succedere ai governi”.

- C’è stata una leadership, quella del presidente della Bce, che questo obiettivo ce l’ha avuto e che nel suo mandato l’ha espressa e l’ha perseguita.

Ovviamente mi riferisco alla leadership politica. Quando manca la leadership politica, un organo tecnico come la Bce – anche se la Bce è l’istituzione in questo momento più potente in Europa – per quanto indipendente, per quanto possa emettere moneta, per quanto possa intervenire per smussare gli effetti di una crisi, comunque non può fare tutto da sola. Quello che è successo è che la Bce e Mario Draghi hanno avuto una esposizione eccessiva. Lei è al corrente delle critiche feroci che ci sono in Germania e in altri paesi del nord sull’operato della Bce. Non si può pensare che si possa ovviare alla carenza di leadership politica con la leadership economica. Mario Draghi è stato bravissimo, è un eccellente leader in termini economici e organizzativi, è una persona che ha carisma, che ha fatto tutto quello che poteva, il ‘whatever it takes’ per salvare l’unione monetaria. Però senza un intervento dei governi, senza una leadership politica, in mancanza di una politica fiscale anticiclica, la politica monetaria all’infinito non ce la farà. Sta facendo molto, può ancora fare ma non si può avere una unione monetaria in cui metà dell’unione è convinta che la politica monetaria li stia danneggiando. Non si dura in questo modo. Ovviamente mi riferivo alla leadership politica”.

Luciano Capone – Il Foglio – 4 dicembre 2019

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Non si contano le voci contrarie alle richieste di autonomia differenziata avanzate da alcune Regioni del Nord, che vengono soprattutto rivolte agli aspetti finanziari e fiscali del processo devolutivo, e alle relative ricadute sugli assetti costituzionali complessivi e sui diritti dei cittadini. Il commento di Dario Stevanato su Il Sole 24 Ore.

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Renzi ed il suo Pd ai ferri corti mentre l'Europa brucia

Matteo Renzi ne ha combinata una più di Bertoldo. Mentre nei cieli d’Europa si affollano minacciose mine che rischiano di esplodere da un momento all’altro (l’Unione si sta lentamente ma inesorabilmente sfaldando, sgretolando, il referendum che si è tenuto in Catalogna lo sta a dimostrare, Madrid si è rifiutata di concederle la possibilità di indirlo per sondare la volontà della popolazione locale che, da anni, chiede maggiori spazi di autonomia, sentendosi tartassata sul piano fiscale dai castigliani di Madrid. Questo episodio ha fatto imbufalire Barcellona che ha osato “strappare” con i castigliani di Rajoy), oggi, poi, il capo del governo spagnolo ha esautorato, decapitato i vertici catalani, commissariando la Catalogna, arrecando un “vulnus” irrimediabile alla giovane storia di Spagna dalla caduta del generalissimo Franco. Nella repubblica ceka, per chiudere il cerchio, alle elezioni politiche hanno nettamente prevalso Babis, soprannominato il Trump ceko, quindi svolta decisa a destra, con i socialdemocratici alle corde. Qualche settimana addietro nella stessa Germania si è assistito ad una avanzata delle destre populiste e ad un passo indietro, sul piano elettorale, di Angela Merkel. Insomma, per l’Europa non c’è pace ed ecco che il leaderino del partito democratico nostrano, per contrastare in campagna elettorale i suoi avversari di destra e di sinistra, pretende un voto di sfiducia al governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Sostiene che il governo sapeva ed era d’accordo alla presentazione della mozione contro Visco. Accusato di omessi controlli nelle vicende dei crack bancari. Cioè Paolo Gentiloni, che nello scorso dicembre lo ha sostituito a Palazzo Chigi alla guida dell’esecutivo, è stato puntualmente informato della mozione contro il governatore di Bankitalia. Informato ma a cose fatte. Poche ore prima della discussione in aula. La situazione è sfuggita di mano al segretario dem. Ignazio  Vico avrà le sue colpe.  Banca Popolare di Vicenza del mitico (un tempo ormai lontano) Nordest, Banca Popolare dell’Etruria, Banca delle Marche, Cassa di Risparmio di Chieti del Centro Italia, che hanno lasciato decine di migliaia di piccoli risparmiatori nei guai fino al collo, ha visto precipitare nell’abisso della povertà tantissime persone assolutamente incolpevoli della situazione determinata da condotte criminali da parte di dirigenti bancari senza scrupoli. Mussari (Mps), Zonin (BpV), Flavio Trinca (Veneto Banca), Lauro Costa e Maurizio Bianconi (Banca Marche) e via discorrendo. Chiedere la testa del governatore Visco, in vista di una lunghissima campagna elettorale che vede il ragazzotto di Rignano sull’Arno sui treni italiani per ascoltare i cittadini e prendere appunti (e magari qualche fischio, e non solo, dalle popolazioni colpite dal terremoto del Centro Italia…) non servirà certo a ristabilire un rapporto fiduciario con il suo elettorato, deluso profondamente dal  cambiamento di strategia da parte di Renzi rispetto alle promesse della vigilia allorquando ha assunto le redini del partito democratico nel dicembre del 2013. Non ci si scordi mai di quella frase “Enrico, stai sereno!” pronunciata qualche settimana dopo, nel gennaio del 2014. Anche il grande vecchio del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari, un tempo solidale con Renzi,  il rottamatore, ha incominciato a prenderne le distanze. Considerato che poche promesse sono state mantenute, ha ben più di una ragione. Sulle crisi bancarie di casa nostra, le responsabilità sono, a vaio titolo, da ascriversi in capo alla vigilanza della Banca d’Italia, agli ex presidenti del Consiglio Mario Monti, Enrico Letta e lo stesso Matteo Renzi, che nulla hanno fatto quando avrebbero potuto (e dovuto). La disciplina europea nel frattempo ha fatto il resto. Con l’adozione del Bail in tutto è precipitato. Prima i risparmiatori, in particolare quelli che acquistavano obbligazioni dagli istituti di credito, nulla o pochissimo avevano da temere su un eventuale default delle banche, perché (come si è ripetutamente constatato con il Monte dei Paschi di Siena, salvato, si fa per dire, con i Tremonti bond e, successivamente, con i Monti bond) lo Stato interveniva per salvaguardare i risparmi dei depositanti. Come, in realtà, hanno fatto in tempi recenti gli stessi Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Germania e la Spagna, l’Austria e altri. Oggi deve, per ordine di Renzi, pagare per tutto questo sfascio il povero Ignazio Visco. Che, ripetiamo, avrà le sue colpe, ma non è il solo, non può essere il solo a fare il “mea culpa”. E di Giuseppe Vegas, presidente Consob, che dire? Il governo è silente. L’Europa è in fiamme e noi ci dobbiamo occupare delle piccinerie di casa nostra. Che triste spettacolo, mentre i giovani chiedono impegni sul fronte lavoro e non mance elettorali.   Marco Ilapi, 22 ottobre 2017
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