Di pasti gratis si muore. Dove la politica ha sbagliato

De Romanis, gli errori di Meloni

Magari sedersi a tavola e gustare un buon pranzo fosse sempre gratis. Non lo è, quasi mai. E lo stesso vale per i miliardi di bonus piovuti sull’Italia in questi ultimi dieci anni, scanditi da crisi finanziaria, denaro a costo zero e poi improvvisamente non più, pandemia, crollo dei prezzi delle case, impennata dell’inflazione e due guerre a poche migliaia di chilometri dall’Europa. Tutto è cominciato con i famosi 80 euro del governo Renzi, poi è stata una spirale, fino al mostro, almeno secondo alcuni, del Superbonus, passando per il reddito di cittadinanza (...) Lo spread è sceso, ma rimane superiore a quello della Grecia o della Spagna. I mercati, molto semplicemente, si stanno fidando dell'Italia e forse nutrono anche molte speranze in un taglio dei tassi da parte della Bce. Ci guardano e ci credono, cioè credono a quanto scritto dal governo nella Nadef, ovvero passare, attraverso una riqualificazione della spesa, da un disavanzo primario dell'1,5% a un avanzo dell'1,6%. Ma le promesse vanno mantenute e se non si mantengono, lo sappiamo, i mercati reagiscono in maniera violenta. L'intervista, a cura di Gianluca Zaponini, della prof.ssa Veronica De Romanis su Formiche

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Così si smonta la grande bufala delle condizionalità del Mes

Nei giorni scorsi, il governo ha presentato il piano che dà il via libera a 400 miliardi di euro di liquidità alle imprese. Il premier Conte lo ha definito “un intervento poderoso mai visto prima”, ma – del resto – neanche una crisi simile si era mai vista prima. Conte ha assicurato che la misura deve essere implementata in modo “celere, spedito e sicuro”. La velocità è fondamentale. I soldi devono arrivare il prima possibile per permettere alle aziende di ripartire appena inizierà la fase due. I prestiti che le banche fanno alle imprese sono a tassi pressoché nulli grazie al rifinanziamento a tasso negativo presso la Bce. Nel caso in cui il prestito non venisse rimborsato, la banca sarebbe garantita dallo stato (tra il 70 e il 100 per cento a seconda della dimensione dell’impresa e dell’ammontare del prestito richiesto) che si finanzierebbe emettendo nuovo debito. Aumentare il debito, anche se come nel caso dell’Italia si ha il secondo rapporto rispetto al pil più elevato dopo la Grecia, è possibile. L’Europa è scesa in campo con due interventi senza precedenti. In primo luogo, dal 20 marzo la Commissione europea ha sospeso le regole fiscali europee e, quindi, il Patto di Stabilità e Crescita. In secondo luogo, la Banca centrale europea ha rafforzato lo strumento del Quantitative Easing come mai aveva fatto in passato: circa 1.000 miliardi di euro fino alla fine dell’anno. Inoltre, per la prima volta dall’introduzione del Qe, l’istituto di Francoforte ha deciso di non quantificare gli acquisti di titoli di debito pubblico degli stati in base alle capital keys ossia alle quote azionarie (calcolate in base al pil e alla popolazione di ogni stato membro). Ciò significa che la Bce può comprare più debito italiano e meno debito tedesco nonostante la quota della Germania sia pari al 18,3 per cento e quella dell’Italia all’11,8 per cento. Ad oggi la quota di debito italiano in mano alla Bce/Bankitalia ammonta al 19 per cento del totale. Grazie a questo intervento, aumenterà di un altro 10 per cento. Va precisato che, sebbene l’intervento della Bce sia davvero potente non è illimitato, come spesso viene presentato nel dibattito pubblico. L’istituto di Francoforte non compra tutto il debito che verrà emesso dallo stato italiano: il Qe prevede limiti alla quantità e alla durata degli acquisti. Per gli acquisti “illimitati” c’è un altro strumento creato durante la precedente crisi che si chiama Omt (Outright Monetary Transactions). L’Omt, a differenza del Qe, non coinvolge tutti i paesi. Solo chi ne fa richiesta può beneficiare di acquisti di titoli illimitati. Ma non incondizionati. L’adesione al programma comporta, infatti, la sottoscrizione di un protocollo in cui ci si impegna a rispettare alcune condizioni tali da garantire il rimborso del finanziamento ottenuto. L’Omt si attiva attraverso il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), strumento su cui il governo italiano ha messo il veto perché considerato “inadeguato” alla situazione attuale. In realtà, il Mes può essere adoperato in molti modi. Nella precedente crisi, è stato utilizzato per la prima volta dalla Spagna: grazie ai 40 miliardi ottenuti, l’allora governo Rajoy ha rimesso in sesto l’intero sistema bancario. In quel caso l’accordo prevedeva condizionalità (consolidamento fiscale e riforme) e la presenza della Troika (Bce, Fondo monetario internazionale e Commissione europea). L’uso del Mes in questa fase sarebbe un altro, perché la crisi non deriva da squilibri macroeconomici. Lo shock è comune. L’impatto, però, rischia di non essere lo stesso: la crisi sta colpendo in modo diverso paesi che già partivano con una situazione diversa. L’Italia, ad esempio, ha chiuso il 2019 con l’economia ferma e il debito in crescita per finanziare prevalentemente la spesa corrente. L’eventuale ricorso al Mes comporterebbe condizionalità ultra leggere da “adattare” – come specificato nel testo della riforma – alla situazione attuale. Queste ultime sarebbero, infatti, legate al finanziamento della crisi generata dal Covid-19, esattamente quello che vuole il governo. Eppure, Conte ha detto “no” al Mes e “sì” agli Eurobond: una posizione difficile da capire considerando – peraltro – che è lo stesso Conte a assicurare di voler “fare presto”. Il Mes, infatti, è disponibile. Come si è detto, va “adattato”. Lo si può fare, lo si deve fare per avere nella cassetta degli attrezzi un altro strumento utilizzabile nell’immediato (non sono molti, purtroppo). Gli Eurobond, invece, devono essere creati. Mettere insieme debito pubblico richiede un accordo complesso. E’ necessario, innanzitutto, definire come verrà speso questo debito (difficile immaginare che potrà essere destinato a finanziare misure come Quota 100). Poi, bisognerà stabilire come rimborsarlo. A questo scopo, dovrà essere istituito un bilancio comune, operazione che richiede la cessione di un po’ di sovranità fiscale (sicuri che chi oggi chiede gli Eurobond vuole rafforzare l’integrazione europea?). Condividere il rischio significa, inoltre, essere disposti a intervenire nel caso in cui uno stato non sia in grado di fare la propria parte. Sotto questo aspetto, l’Italia si mette sempre dal lato del debitore: “Non abbiamo mai mancato di rimborsare il nostro debito” ha precisato Conte recentemente. Ma, cosa succederebbe se a non rimborsare il debito fossero gli altri? Il governo sarebbe pronto a venire incontro a un paese europeo in difficoltà usando i risparmi degli italiani? I tempi per risolvere i suddetti punti non sono certamente brevi. L’Italia, invece, ha bisogno di finanziamenti domani mattina.

Veronica De Romanis – Il Foglio – 9 aprile 2020

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Evitare l'infezione economica_1

Sfruttare al meglio un “contesto europeo favorevole”, utilizzando finalmente bene, e non come avvenuto in passato, la flessibilità. E’ questo l’appello che l’economista Veronica De Romanis lancia al governo italiano. “Che, prima di tutto, dovrebbe fare i conti. E ricordare che noi spendiamo circa 20 miliardi per quota 100, reddito di cittadinanza e 80 euro: tutte misure che non hanno un impatto positivo sul pil e sull’occupazione, e non vanno neppure alle categorie più penalizzate che sono i giovani e le famiglie con minori a carico”. Ebbene, “l’Europa dopo alcune gaffe si è mossa bene. La Commissione ha sospeso il Patto di stabilità, concedendo così ai vari paesi di spendere di più senza violare alcuna regola. La Bce ha lanciato un programma di Quantitative easing potenziato, che ammonterà nel complesso a circa mille miliardi. E poi c’è il Mes che, nel caso venisse attivato, può andare incontro ai paesi in difficoltà o magari a tutti gli stati dell’Eurozona, a seconda di come evolverà la discussione tra i vari governi. Ma del resto, già prima della crisi del Covid-19 c’era la possibilità di sforare il Patto di stabilità attraverso la concessione di flessibilità: e l’Italia ne ha chiesta più di tutti, circa 30 miliardi. Eppure non l’abbiamo utilizzata per fare investimenti intelligenti. Tre dati su tutti. In previdenza spendiamo il 16,3 per cento del pil, a fronte di una media europea del 13,1; in Sanità 6,5 per cento contro il 9 europeo; nella politiche sociali 5,3 per cento a fronte del 7. Insomma, una situazione favorevole già c’è stata in Europa e non abbiamo saputo sfruttarla al meglio. Ora che questa situazione è molto più favorevole, speriamo che il nostro governo sappia farne il miglior uso possibile”. Veronica De Romanis, economista

Riconvertire il lavoro e la produzione"

Tra i tanti pericoli che questa crisi sta producendo, Guido Tabellini ne sottolinea uno, in particolare. “E’ importante notare che il sistema bancario dovrà subire delle perdite in questa circostanza”, dice l’economista, già rettore dell’Università Bocconi di Milano. “Ed è dunque importante che il capitale delle banche venga preservato, e perciò sarebbe opportuno bloccare subito i dividendi delle banche, che devono tenere tutte le risorse al loro interno”. In secondo luogo, “in un’ottica di emergenza di breve periodo va facilitata una piccola o grande riconversione del lavoro e della produzione verso quei prodotti che oggi sono più scarsi e più importanti, dalla logistica ai materiali sanitari. E in questo processo, imprese e lavoratori vanno spinti sul sentiero della riconversione, laddove possibile, perché se si tratterà, come speriamo, di un’emergenza di non lungo periodo. E non è detto che ci sarà la convenienza immediata delle imprese o dei singoli lavoratori di spostarsi verso attività che però sono fondamentali per affrontare la crisi dei prossimi mesi”. E dunque, “non solo sostenere i redditi, ma anche spingere l’attività produttiva verso gli impieghi essenziali”. Guido Tabellini, economista

Adesso che siamo tutti keynesiani, proviamo a essere keynesiani intelligenti

“Siccome quando la casa brucia diventiamo tutti keynesiani, proviamo almeno a essere keynesiani intelligenti”, dice Andrea Tavecchio, imprenditore ed esperto di politiche fiscali, tema su cui è stato in passato anche consulente del governo italiano. “E allora propongo due esempi: uno di best practice, americano, l’altro, di segno opposto, italiano. Quello positivo, per primo. Il sindaco di Chicago e il governatore dell’Illinois capiscono che sta arrivando lo tsunami del Covid-19, e capiscono anche che nelle loro équipe non ci sono competenze adeguate per reagire all’emergenza. Allora chiamano a collaborare col comune e con lo stato alcuni professori, degli esperti e dei think tank affidando a ciascuno un compito specifico: dalla riorganizzazione del lavoro pubblico, riducendo al minimo i contatti sociali, a quella del market place che possa funzionare anche in caso di lockdown. E poi, tra le altre cose, si sono chiesti come evitare che i senzatetto diventassero dei diffusori involontari del virus. E così hanno deciso di fornire dei voucher alle Ong che aiutano queste persone, permettendogli di comprare così delle notti tramite Airbnb o Booking.com, comunque in un’ottica di mercato”. Poi c’è l’esempio negativo. “Ed è il caso del dpcm emanato il 22 marzo, dove è stato utilizzato il codice Ateco per definire quali attività chiudere e quali mantenere aperti. E questo ha creato per gli addetti ai lavori una serie di dubbi incredibili, anche perché quei codici Ateco sono nati decenni fa per puri fini Istat, e molto spesso non hanno una vera correlazione con le attività che vengono svolte dalle imprese, e soprattutto non sono in grado di mappare le varie filiere, che dovevano essere salvaguardate nella loro integrità. Sarebbe stato molto più facile ed efficiente, anziché usare i Codici Ateco, utilizzare i dati che l’Agenzia delle entrate ha già. Perché, grazie alla fatturazione elettronica, le filiere sono già perfettamente conosciute, perché chi emette e chi riceve fattura viene mappato. Per cui, con una precisione granulare straordinaria, si sa già quali sono le catene del valore in Italia”. Andrea Tavecchio, libero professionista

Valorizzare il sistema scolastico, anche nell’emergenza

Di “scienza e coscienza”, ha voglia di parlare Elsa Fornero. Che ammette: “Sì, io ho paura, per questo virus”. E però, “di fronte alla paura”, l’economista torinese, già ministro del Lavoro, dice di “cercare sempre, ogni giorno, di alimentare un po’ la fiducia con quell’ottimismo della ragione che oggi è quanto mai necessario. E la trovo, questa fiducia, nella grande abnegazione di tutti coloro che si occupano di salvare vite umane, qualche volta senza i necessari dispositivi: medici, infermieri, tutto il personale sanitario. E poi la Protezione civile e le forze dell’ordine. Ma anche la grande generosità degli italiani che continuano a donare per sostenere questo sforzo. Tutto ciò nasce da quello che possiamo chiamare coscienza, civica o religiosa che sia”. Venendo invece alla scienza, “qui le note si fanno dolenti”, dice Fornero. “Senza scienza e conoscenza non è possibile alcun progresso. Ma forse noi, in questi ultimi anni, non ci siamo sufficientemente convinti del valore della scienza, ma ci siamo anzi avvicinati a quella società di scienziati improvvisati alimentata da quegli slogan del tipo ‘uno vale uno’ oppure ‘questo lo dice lei’. La scienza e la conoscenza riconoscono il valore della prudenza e della lungimiranza, sanno la difficoltà di trovare soluzioni a problemi complessi”. “Mi ha fatto molto piacere sentire il ministro Gualtieri dire che nessuno verrà lasciato solo di fronte al rischio di perdere il lavoro. Ma avrei voluto sentire la stessa determinazione, da parte del governo e del ministro dell’Istruzione, nel garantire che nessuno scolaro sarà lasciato solo in questa circostanza, rispetto a quello che è il dovere della continuità pedagogica e didattica che uno stato ha. E allora non è possibile che a più di un mese dall’inizio dell’emergenza ci siano ancora un milione e mezzo di bambini che non sono stati raggiunti dall’insegnamento a distanza. E sappiamo tutti che questi sono i figli delle famiglie più disagiate, emarginate e povere. E sappiamo anche che l’origine della disuguaglianza comincia dai primi anni della vita, e non si può pensare di risolverla solo con rimedi più tardi. Bisogna cercare di realizzare il livellamento del terreno di gioco, ma ciò avviene solo quando il sistema scolastico è davvero valorizzato”. Elsa Fornero, ex ministro del Lavoro del governo Monti

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