Se Conte si sente assediato

Tiene banco un tema che ne ingloba molti altri: quanto è ancora in grado di sopravvivere il governo Conte? Un tempo qualcuno prevedeva che avrebbe coperto l’intero arco della legislatura, quanto meno sarebbe arrivato alla scadenza del mandato di Mattarella, all’inizio del 2022. Oggi nessuno azzarda un simile vaticinio. Semmai, chi desidera che l’attuale assetto regga si aggrappa a un dato di fatto reale: la difficoltà di immaginare, allo stato delle cose, un’altra maggioranza e un altro premier. Tuttavia l’esperienza insegna che simili calcoli sono quasi sempre astratti.

Nel momento del tracollo sono spesso le circostanze a risolvere le alchimie politiche, individuando le formule e le persone sulle cui gambe far camminare il ricambio. Non siamo arrivati a quel punto, ma quasi.

Sappiamo che il premier si sente assediato e questo lo ha indotto a commettere vari errori, come l’eccesso di esposizione televisiva a scapito del Parlamento. O l’abuso dei decreti della presidenza del Consiglio, stigmatizzato da una figura autorevole come Sabino Cassese. Tutti fattori di debolezza.

È probabile che al vertice europeo di giovedì Conte superi lo scoglio del Mes (il fondo salva-Stati) attraverso qualche gioco di prestigio in grado di far digerire ai Cinque Stelle la scelta pressoché obbligata (così come buona parte dei grillini si sente obbligata a restare attaccata all’esecutivo). Ma dopo il recente caos nell’aula di Bruxelles, quando i vari rappresentanti italiani, di maggioranza e di opposizione, si sono espressi nell’anarchia più totale, è evidente che un po’ tutti gli equilibri stanno saltando. C’è però un nodo di fondo: il sistema industriale italiano ha un disperato bisogno di liquidità e questa la può fornire soprattutto l’Europa.

L’idea di "cavarsela da soli" è suggestiva, ma richiederebbe uno Stato in grado di funzionare con tempestiva efficacia. E non sembra questo il caso.

Ne deriva che Conte può scivolare non tanto sul Mes, bensì sulla "fase 2", quando le risorse soprattutto europee dovranno essere gestite e smistate con equilibrio politico. L’equilibrio che in queste settimane troppo spesso è mancato, come dimostrano le tensioni tra Nord e Sud, o tra certi settori del Nord e Palazzo Chigi. C’è un precedente che fa riflettere: il 2011, quando il governo Berlusconi lasciò il campo sotto la pressione delle circostanze (l’emergenza finanziaria) e fu sostituito da un governo "del presidente" (Napolitano-Monti) fondato su un’ampia maggioranza parlamentare. Oggi il quadro è diverso, ma non del tutto. Le fratture nella maggioranza esistono, ma in parte sono ricomponibili. E nel centrodestra emergono novità. Berlusconi non vede l’ora di sottrarsi all’egemonia salviniana ed è pronto a entrare in una combinazione che superi Conte. Giorgia Meloni ha maturato una sua linea sull’Europa che non coincide con il massimalismo della Lega. Nel Carroccio stesso nulla è statico. Salvini tende per istinto alle scelte più radicali, sulla linea del tandem Bagnai-Borghi. Ma Giorgetti, come ha scritto questo giornale, crede da tempo a un’ipotesi di solidarietà nazionale. E nelle regioni del Nord, il veneto Zaia propone un modello di amministrazione territoriale ben diversa dal nazionalismo quasi ideologico propugnato dal leader. Non è chiaro come tutto questo si trasformerà in ipotesi concrete, ma forse l’immobilismo attuale non durerà a lungo.

Stefano Folli – la Repubblica – 19 aprile 2020

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L'abuso di potere di Giuseppe Conte

Lo Stato agisce con leggi, che possono delegare al governo compiti e definirne i poteri. La Corte costituzionale, con un’abbondante giurisprudenza, ha definito i modi di esercizio del potere di ordinanza «contingibile e urgente», cioè per eventi non prevedibili e che richiedono interventi immediati. Le definizioni della Corte sono state rispettate a metà. Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza. Due costituzionalisti a confronto, Paolo Armaroli e Sabino Cassese.

I pieni poteri a Palazzo Chigi, un vero e proprio abuso

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I nemici nascosti

C’è unanimità di vedute: la ripresa, nella fase 2, ci sarà se ci liberiamo della burocrazia. Si propone di ridurne il peso, ripensarla, scavalcarla, saltarla, toglierla di mezzo, smantellarla, sconfiggerla. Ma, come ha osservato su questo giornale Daniele Manca il primo aprile, dietro questo nemico si nascondono in molti. È bene, allora, accertare dove sono le responsabilità, da dove vengono tutti i mali che attribuiamo alla burocrazia. Primo: gli uffici pubblici si muovono su una trama che è disegnata dai legislatori (Parlamento e governo). I poteri degli uffici sono attribuiti dalle leggi, che ne disciplinano l’esercizio. Il codice vigente dei contratti, uno dei principali responsabili del deficit italiano di infrastrutture, è il frutto di numerose addizioni rispetto alle direttive europee (un fenomeno che si chiama «goldplating», placcare in oro), addizioni non necessarie, che hanno prodotto l’attuale stallo. Molte altre procedure potrebbero esser sfoltite, altre abbreviate, altre poste in parallelo, invece che in sequenza (una si svolge mentre avanza l’altra, invece che dopo l’altra), dotate di «corsie di emergenza» in caso di necessità. Questo eccesso legislativo è subito dalla burocrazia (che talvolta se ne fa scudo, e talora addirittura lo sollecita, per scaricarsi da responsabilità) e va imputato principalmente a chi adotta ogni giorno una procedura nuova che si aggiunge, senza mai sottrarre, a una precedente, a chi richiede un parere in più. Di questo sono responsabili in ultima istanza il Parlamento e il governo. Solo leggere l’ultimo decreto legge richiede — come ha osservato ieri su queste pagine Gian Antonio Stella — uno straordinario studio: figuriamoci quando si tratta di metterlo in pratica, come deve fare la burocrazia. Quindi, responsabile maggiore di questo agente patogeno è la politica (salvo poi lamentarsene).

Secondo: la messa in stato d’accusa della «burocrazia» ha creato, in questi ultimi anni, nei suoi confronti una condizione di sospetto. Corruzione, lentezze, ostacoli, sabotaggi vengono tutti imputati alla burocrazia. Su di essa si sono quindi scaricate, come conseguenza, responsabilità sempre maggiori (sanzioni disposte per i reati di mafia sono estese, del tutto impropriamente, anche ai reati contro la pubblica amministrazione) e contro di essa sono stati introdotti o reintrodotti controlli preventivi. In questo modo, controllore e controllato cogestiscono, si diluiscono le responsabilità e si rallenta l’azione amministrativa. Si aggiungono le procure, divenute ormai i decisori di ultima istanza dello Stato, capaci di aprire inchieste, non di chiuderle. Tutto questo non va imputato alla burocrazia, ma al corpo politico (che ha creato, ad esempio, l’autorità anticorruzione per salvarsi l’anima e scaricare su un parafulmine le accuse normalmente rivolte ad esso) e alla facilità con cui le procure si impadroniscono delle grandi decisioni collettive senza avere capacità e mezzi per affrontarle e senza rispettare i tempi brevi necessari. In queste condizioni, come possono le amministrazioni pubbliche assicurare quella certezza e velocità che il presidente di Assolombarda giustamente richiedeva ieri, nell’intervista al Corriere? Terzo: il personale burocratico stesso è scelto male (quando è scelto: sarà il caso di ricordare come vengono nominati i direttori delle aziende sanitarie e gli stessi primari ospedalieri). Sono pochi i burocrati selezionati con procedure concorsuali aperte a tutti e basate sul merito, e pochi gli stessi concorsi che riescono a svolgere questo compito selettivo. Troppa è la fame di posti delle forze politiche, desiderose di premiare propri fedeli o di conquistarne di nuovi mediante lo «spoils system» all’italiana. I migliori burocrati sono frustrati da tecniche di lavoro pre-tayloristiche (la stessa digitalizzazione è assolutamente insufficiente) e dall’assenza di incentivi (i premi vengono dati a tutti, quindi non sono premi). Le aziende private innovano le procedure interne, in media, ogni nove anni. Quelle dell’amministrazione sono spesso centenarie. I dipendenti pubblici incapaci, schiavi della legge, se ne fanno scudo. Quelli bravi patiscono di vivere come sospettati, all’interno, di ogni male e imputati, all’esterno, di tutte le nefandezze dello Stato.

Quarto: non ultimo agente patogeno è la cultura amministrativa. Quella «alta» ha coltivato il formalismo e frequentato le aule di tribunale. Quella diffusa si è accontentata della denuncia, guardandosi dal fare proposte concrete. In ultima istanza, sono i cittadini e le imprese i destinatari dell’azione amministrativa e questi non hanno fatto sentire la propria voce. Questo tentativo di districare i termini di un problema complesso, indicare cause, individuare responsabili e cure, non può terminare senza un’avvertenza. Una parte di tutto ciò che imputiamo allo Stato, l’abbiamo voluto noi, e non vorremmo esserne privati. La democrazia assicura grandi benefici, ma ha anche un costo. È merito delle democrazie di far sentire la voce dei cittadini, di quelli che vogliono una migliore tutela dell’ambiente, la cura dei beni culturali, alimenti più sicuri, maggiore attenzione alle acque di balneazione, e così via. Ad esempio, una società democratica è interessata alla certificazione di giocattoli, ascensori, dispositivi medici, lampadine. E allora non dobbiamo lamentarci perché le mascherine debbono avere il marchio CE, che richiede qualche tempo, ma serve per assicurarci che il prodotto corrisponda agli standard di sanità e sicurezza che ci sono necessari (questo standard, peraltro, sotto la pressione delle circostanze, è stato abbassato nei giorni scorsi). La Cina ha potuto combattere tanto rapidamente il virus perché lì questi interessi collettivi hanno minori tutele (così come minori garanzie hanno le libertà). In conclusione, se vogliamo che lo Stato riprenda forza, bisogna liberare la burocrazia dai vincoli esterni inutili o dannosi e rafforzarla all’interno, scegliendola meglio e responsabilizzandola; non pensare di farne a meno, come dicono coloro che sognano «leggi autoapplicative». I rimedi necessari non sono immediati e una classe dirigente capace, per ripartire, dovrebbe capire che può operare solo in due tempi. Fare subito un programma di riordini, cominciando da quelli più urgenti, ma avviare quelli che richiedono più tempo. L’abbiamo sentito ripetere tante volte, specialmente in questi giorni: «Don’t waste a good crisis».

Sabino Cassese – Corriere della Sera – 10 aprile 2020

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