Il Mes è un cappio al collo dell'Italia?

La mannaia del Mes cadrà sulla testa di tutti i membri dell’Eurozona tranne uno: la Germania. Come se non bastasse l’evidente asimmetria alla base del trattato, c’è un altro aspetto da considerare per sottolineare l’inutilità del Fondo salva-Stati, ed è quello riguardante il suo essere un ibrido. In poche parole, è difficile descrivere il Meccanismo europeo di stabilità per il semplice motivo che un’operazione del genere implica una sua analisi poliedrica. Come ha spiegato al quotidiano Italia Oggi Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, “ci vuole qualcuno che lo guardi dal punto di vista del diritto commerciale, perché il Mes è una banca. Ci vuole qualcuno che lo guardi dal punto di vista del diritto costituzionale, perché il Mes è una banca che ha le prerogative di uno Stato sovrano. E ci vuole qualcuno che lo guardi dal punto di vista dell’economia dei mercati finanziari, perché nel Mes si concepiscono come un’istituzione finanziaria, e non capiscono perché un’ istituzione finanziaria debba essere oggetto di tante critiche”. Il commento  di Federico Giuliani su il Giornale.

Mes, non tutti gli Stati sono uguali, la Germania è più uguale degli altri

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Un ufficio stampa nazionale

Ci siamo fatti male da soli. Un meraviglioso esercizio di masochismo nazionale. Ecco la sintesi brutale di giorni convulsi e pieni di inutili polemiche intorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) o più volgarmente salva-stati. Un osservatore straniero senza pregiudizi si rivolge alcune domande. Si chiede come mai un presunto colossale rischio per i risparmi degli italiani non sia stato nemmeno lontanamente intravisto da coloro che oggi lo temono gridando a squarciagola (Lega e Cinque Stelle) quando il precedente governo, di cui facevano parte, ne trattava i dettagli. Un mistero. Assumersi, di conseguenza, qualche responsabilità, se non diretta almeno politica, di «omessa vigilanza», no? Di certo, se facessero i consulenti finanziari non troverebbero tanti clienti.

Federico Fubini, sul Corriere, ha spiegato bene il funzionamento del Mes e i margini di trattativa ancora esistenti. Ha chiarito che non vi è un automatismo fra la richiesta di aiuto di uno Stato in difficoltà e la ristrutturazione del suo debito come avrebbero voluto i Paesi nordici. E che si tratta di creare un argine alle eventuali crisi bancarie per evitare effetti contagio. Dannosi per tutti. Certo, si poteva fare di più. Lo si può ancora fare in sede di approvazione del trattato, di completamento dell’unione bancaria e di redazione del bilancio 2021-27 di Bruxelles. Ma il medesimo osservatore straniero si pone altre domande chiave. Non sul Fondo salva-stati. Ma di fondo. Sulla credibilità del Paese.

Allora non escludete di fallire, vero? Perché non parlereste così, non vi agitereste, se foste tutti davvero sicuri di far fronte ai vostri impegni. Come dargli torto. Nella vita normale i dubbi sulla sostenibilità di un debitore assalgono i creditori. Non sono sventolati ai quattro venti dal debitore stesso. Un imprenditore che non esclude di andare a gambe all’aria, e si agita all’idea, non incoraggia la banca a fargli credito, né il risparmiatore comune a sottoscrivere le azioni o le obbligazioni della sua azienda.

Il nostro amico straniero continua. Gentile, ma implacabile. Si chiede ancora: forse tutte queste polemiche nei confronti del funzionamento del Fondo salva-stati hanno il retropensiero di una possibile uscita dall’euro? Perché se fosse così non potete stupirvi che gli altri diciotto Paesi aderenti alla moneta unica siano diffidenti e tentino di cautelarsi, rafforzando pregiudizi, spesso infondati, nei vostri confronti. E poi: senza il Mes, ritrovando la vostra sovranità monetaria — che non equivale all’indipendenza, tutt’altro — il risparmio degli italiani sarebbe veramente a rischio in caso di difficoltà. Ne siete consapevoli? Non credo. Non state raccogliendo le firme nelle piazze italiane? Sì, appunto, non possiamo dargli torto, solo difendere la libertà di manifestazione e pensiero.

Per fortuna, il nostro amico conosce non solo l’economia ma anche la storia. È spagnolo e si ricorda che nel 2012, anche grazie al contributo italiano, vennero salvate le banche del suo Paese. E Madrid, che non ha certo una situazione politica tranquilla, facendo subito riforme serie, è tornata a crescere molto più di noi. Grazie, ripete. Non c’è di che, rispondiamo. Siete sempre stati dalla parte dei creditori nelle crisi di questi anni (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Anzi, ricordo che molti di coloro che oggi strepitano contro il Mes avrebbero voluto che quei Paesi se la cavassero da soli, con i loro risparmi. Giusto. E poi non avete fatto mai, nella storia unitaria, dei veri default. Avete sempre rispettato i vostri impegni. Nel 1926 vi fu solo un consolidamento, un allungamento obbligatorio delle scadenze di rimborso, come ci ricorda in un suo scritto Michele Fratianni (Indiana University). Nel 1934 un accordo sul debito estero insieme ad altri Paesi europei, Francia compresa, come scrive Gianni Toniolo (L’economia dell’Italia fascista, Laterza). Tassi alti. Onerosi. Ma sul debito pubblico avete sempre pagato. A differenza di altri Paesi. Anche di quelli che oggi hanno il dito alzato. Mentre i vostri risparmiatori hanno sofferto per le insolvenze di altri: Argentina (tango bond, 2001), Russia (1998) per esempio.

Leggo poi, continua il nostro amico spagnolo, che temete di dover pagare l’eventuale crisi di banche tedesche. La Commissione europea ha appena consentito il salvataggio di Nord LB Hannover, una delle principali banche tedesche, con i soldi pubblici. Dovreste far sentire la vostra voce visto che in passato Bruxelles ha impedito (caso Tercas) l’intervento di un fondo interbancario privato, considerandolo aiuto pubblico. Il fondo interbancario poteva poi salvare altri vostri istituti. E non fu possibile. Fatevi sentire. Mi sembra assolutamente giustificata, poi, la vostra preoccupazione che i titoli di Stato in pancia alle banche possano essere considerati rischiosi. Perché mai dovrebbero esserlo? Lo sono certamente alcuni dei prodotti derivati — difficilmente o teoricamente prezzabili — di cui sono pieni i bilanci degli istituti tedeschi, francesi e spagnoli. La storia insegna, e non solo con la grande crisi del 2008, che i default privati sono più numerosi e frequenti di quelli pubblici. Ho chiesto al mio amico spagnolo di fare lo spin doctor, l’ufficio stampa del Paese, visto che non ne siamo capaci. Mi ha risposto che gli piacerebbe tanto, ci ama moltissimo, ma teme che lo pagheremmo poco. Per demagogia. Non capisce che cosa sia il reato l’abuso d’ufficio. È sicuro che verrebbe scambiato per un agente al soldo di poteri forti stranieri. L’ho ringraziato e mi sono arreso.

Ferruccio De’ Bortoli – Corriere della Sera- 8 dicembre 2019

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L’interesse italiano? Cercare alleati in Europa

L'Ue si trova ad un tornante storico; è nata per superare le ferre leggi di gravità politica, risolvendo i contrasti con l'accordo non con la forza. Nel mondo furoreggia la figura del «Capo» delle democrature, ove magari si vota, ma ove mancano, o traballano, i pilastri della democrazia: libera stampa, bilanciamento dei poteri, rispetto di leggi e minoranze. Chi provi a darsi una prospettiva ampia, vede che l’unione Europea è a un tornante storico; essa è nata con l’ardito disegno di superare le ferree leggi di gravità politica, risolvendo i contrasti in una comunità di Stati con l’accordo, non con la forza. Per i regimi autoritari, essa è il grande nemico: mostra che si può essere, insieme, prosperi, liberi, in pace. In tanti la vorrebbero debole, per retrocederla, direbbe il Metternich, a pura espressione geografica, collezione di graziosi ninnoli da salotto. Bisogna invece rafforzarne la coesione, difenderla, farla avanzare: ferma, nel mondo in ebollizione, non può stare. La Russia è una modesta economia ma ha alte ambizioni; soffre la vicinanza di una grande entità politica ed economica, faro per gli oppositori interni del Capo, influente anche su regioni storicamente tributarie di Mosca. Per motivi simili la Turchia oggi non ama la Ue; a lei guarda fiducioso chi vede i propri diritti calpestati dal Capo. Questi se l’intende col presidente Usa Donald Trump, che definisce la Ue una grande nemica; le audizioni per l’impeachment in corso mostrano il suo disprezzo per i checks and balances, essenziali presidi di ogni democrazia. Se sarà rieletto la sua politica, volta a dividere gli europei per avere più forza trattando separatamente con ognuno, otterrà il vero obiettivo: ridurre la Ue all’irrilevanza politica. La saggia Cina non s’espone; altri già s’agitano a suo vantaggio. Un blocco di democrazie avanzate, forte di 500 milioni di persone, è scomodo per tali Capi, è la città scintillante sulla collina, cui guardano le vittime di regimi autoritari; perciò l’azione illiberale dei «Quattro di Visegrád», tendendo a demolire quella città, è il primo rischio esistenziale cui essa é esposta. La nostra Italia intanto si mira l’ombelico, avulsa dalla grande partita geopolitica; si veda come M5S e Lega trattano il Meccanismo Europeo di Solidarietà (Mes). Essi lavorano per il Re di Prussia agendo da «Quinta Colonna» interna contro la Ue: chi senza capirlo, chi consciamente e per qualche rendimento (politico o altro). Il complesso tema Mes, già trattato sul Corriere, ci ricorda che chi persegua risultati seri deve giocare a Bruxelles la sua mano, non buttare la palla nelle tribune degli ultrà. Il nostro grande debito pubblico è il secondo rischio esistenziale per la Ue; potrebbe ulteriormente potenziare il primo. Figlio di inefficienza, evasione fiscale, corruzione, esso pesa sui nostri discendenti, ma spaventa anche chi teme di dover pagare i nostri conti; non basta ricordare che l’Italia non è costata né costerà un euro a nessuno, ma ha contribuito a salvare le banche tedesche e francesi dalla ristrutturazione del debito greco. Sul nostro governo preme una Lega che vorrebbe farci entrare in quel Club quale quinto membro, col grande macigno del nostro debito: sarebbe davvero la fine della Ue. Questa può invece vincere la partita geopolitica sconfiggendo chi vuol corroderla dall’interno, restando unita e dandosi processi decisionali veloci; per dimostrare che la democrazia può essere più efficace della democratura, il cui Capo non si cura di perder tempo a convincere i propri sudditi. Quando la nuova Commissione alfine partirà, dovrà essere il gran comunicatore delle ragioni dell’unione, ricostruendo quella fiducia fra Stati la cui mancanza è oggi il suo tarlo. Ciò perché ovunque, a Londra come a Roma o a Berlino, le classi dirigenti rinfocolano i pregiudizi nazionali, incolpando gli altri per i mali propri. Se manca la fiducia reciproca, ci si affida ai numeri; ciò evita la fatica delle decisioni politiche, difficili poi da «vendere» ai propri elettori. L’Italia non deve abbaiare nel cortile di casa, ma cercare alleati, specie in quella Francia il cui presidente Emmanuel Macron pare il solo leader pronto a spendersi per l’Europa; non a caso egli insiste sul tema, troppo grande per queste note, della difesa comune europea, sul quale va sfidato a fare gesti concreti. Mettere al sicuro i nostri conti è lavoro aspro, ma alla portata di chi si dia un metodo, vi si attenga, lo spieghi ai cittadini. Non farlo toglie peso alle richieste di Mario Draghi per una capacità fiscale dell’eurozona, libera da opportunismi nazionali: disegnarla in modo accettabile da chi ora la esclude, spiegandone però il vero senso a chi creda di poter poi ripartire con la finanza allegra, deve essere il gran compito della nuova Commissione. Solo così potrà dare un futuro alla Ue. Non capirlo, boicottando invece il lavoro del ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, sarebbe folle. Sarà compito arduo per una Commissione che ha una maggioranza meno solida del passato, ma se non lo svolgerà la Ue finirà su un binario morto, ove gli sfascia-carrozze presto arriveranno a darle pietosamente il colpo di grazia. Al funerale, gli utili e magari inconsapevoli idioti, porteranno le corone di fiori dei mandanti; è cieco chi non veda il rischio.

Salvatore Bragantini – Corriere della Sera – 27 novembre 2019

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