Le due Italie

Quanto vale elettoralmente il partito del Pil, il partito della crescita economica? A quanto gli scommettitori valutano le sue possibilità di successo? Dopo qualche decennio in cui il ciclo ha visto alternarsi solo bassa crescita, stagnazione e recessione, c’è una parte assai ampia del Paese che sembra ormai abituata a questa situazione anzi, sembra pronta a difendere con le unghie e coi denti gli equilibri sociali che l’economia stagnante ha generato. Altrimenti non sarebbero spiegabili certi eventi. Il passaggio dal Conte 1 (governo gialloverde) al Conte 2 (governo giallorosso), fatte tutte le debite proporzioni, richiama certi aspetti del passato, ci ricorda che ci sono tratti del «carattere nazionale» che restano costanti. Rammentate la retorica antifascista di un tempo, quella secondo cui la Repubblica democratica nata dalla Resistenza nulla, ma proprio nulla, aveva più a che fare con il ventennio fascista? Ebbene, mai una volta si percepì, dietro quella retorica, anche solo un po’ di imbarazzo per le tante norme e le tante istituzioni lasciate in eredità alla suddetta Repubblica dal fascismo: l’Iri, ad esempio (per citare solo il caso più clamoroso), era una creatura di Mussolini ma i suddetti antifascisti tutti d’un pezzo se ne sbarazzarono solo nel 2002. Salvo poi in seguito darsi da fare per ricostituirla sotto altro nome.

Anche nelle (più piccole) vicende italiane di oggi riconosciamo il carattere nazionale. Il Conte 2 è nato (grazie agli errori di Salvini) contro Salvini. C’è stata discontinuità nel rapporto con l’Europa ed è naturalmente un punto decisivo. Ma è anche l’unico. Per il resto, si sono registrate solo continuità. Non solo il reddito di cittadinanza ma anche l’altra brillante misura anti-crescita del Conte 1, ossia quota cento, è stata confermata dal Conte 2, nonostante si trattasse di un provvedimento targato Lega. C’è anche un altro elemento di continuità, ma questa volta con attori diversi: con il Pd che ha sostituito la Lega nella difesa delle infrastrutture da realizzare e nelle dichiarazioni (in entrambi i casi ci sono più parole che atti) a favore delle imprese, della crescita economica, eccetera. Ma sia col Conte 1 che col Conte 2, il carniere del partito del Pil è rimasto pressoché vuoto. La vicenda Ilva segnala che i 5 Stelle, gruppo parlamentare di maggioranza relativa col governo di prima e con quello di ora, possono anche perdere qualche battaglia qua e là ma stanno comunque vincendo la guerra combattuta in nome dell’ideale della «decrescita felice», e forse la vinceranno a meno di colpi di scena. La vicenda Ilva suggerisce che il partito della decrescita è più forte di quello della crescita, dispone di più consensi diffusi e di più alleati nelle istituzioni rappresentative, amministrative, giudiziarie.

Sarebbe in un certo senso rassicurante pensare che le due Italie, quella favorevole alla crescita e quella contraria, siano facilmente distinguibili e separabili. Sarebbe rassicurante nel senso che, per lo meno, si potrebbe fare chiarezza sulle divisioni sociali che attraversano il Paese nonché sul modo in cui la politica le rappresenta, le manipola e, eventualmente, le esaspera. Purtroppo, questa facile distinguibilità non c’è. Entrambi gli schieramenti, sia quello che sostiene il Conte 2 sia quello che l’avversa, contengono nel loro seno tutte e due le suddette Italie. Il partito del Pil è sparpagliato e diviso, sta in parte con la destra, in parte con la sinistra. Non è facile stabilire se la sua debolezza dipenda da questa divisione oppure se, più banalmente, esso conti poco nel Paese.

Comunque finisca la vicenda Ilva — nuovo accordo con Arcelor Mittal, statalizzazione o chiusura — c’è comunque un messaggio che è già stato mandato a tutti i potenziali investitori esteri: non fate la sciocchezza di venire in Italia, questo è un ambiente ostile. È facile, per gli osservatori, scambiare per «follia», «irrazionalità», le mosse di chi punta alla deindustrializzazione del Paese, a una accelerazione del suo declino economico. Ma se vuoi sconfiggere qualcuno devi sforzarti di capirlo: non c’è follia né irrazionalità. Un’ideologia anti-industriale, sempre esistita, e diffusa in varie aree geografiche e sociali, ha favorito una stagnazione economica decennale e, a sua volta, quella stagnazione ha rafforzato la suddetta ideologia. Si aggiunga l’importanza che riveste il declino demografico, l’invecchiamento del Paese. Anch’esso lavora contro la crescita economica. Una società in crescita è una società dinamica, che favorisce il movimento delle persone orizzontalmente (attraverso il territorio) e verticalmente (attraverso le gerarchie sociali). Tutto ciò si confà di più a un mondo di giovani che guardano al futuro, nonché di anziani preoccupati per la sorte dei propri figli e pertanto interessati a mettere le proprie competenze e la propria esperienza al servizio di quel futuro. Ma, nelle condizioni attuali, molti finiscono per preferire la quiete al movimento, la staticità al dinamismo, una (magari piccola) rendita sicura al rischio e alla scommessa su possibili — e probabili, quanto più forte è la crescita economica generale — vantaggi futuri. Ed è interessante, ancorché preoccupante (ma anche comprensibile), il fatto che una quota non piccola di giovani si sia rassegnata all’immobilità, a ricavarsi un modesto giaciglio (la pensione del nonno, il reddito di cittadinanza) all’interno della società della decrescita.

Sfortunatamente, tutto ciò non è irrazionale, per lo meno nel breve termine. L’irrazionalità (ma esito a definirla così), semmai, riguarda il medio-lungo termine. Dall’argentina in varie fasi della sua storia al Venezuela di oggi, sappiamo quali conseguenze sociali e politiche si portino dietro stagnazione e declino. Ma chi sfrutta il diffuso favore per l’economia stagnante cerca voti qui e ora, il medio-lungo termine non lo riguarda.

Non c’è allora speranza? Tanto vale buttare via subito la spugna? No, la speranza c’è. Esiste pur sempre la seconda Italia. Il partito del Pil potrebbe anche essere — sorprendendo tutti — elettoralmente più forte di quanto i suoi nemici immaginino.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 11 novembre 2019

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Il nodo (quasi) insolubile dell'ex Ilva di Taranto

Arcelor Mittal aveva ammonito che "se il decreto dovesse essere approvato nella sua formulazione attuale, la disposizione relativa allo stabilimento di Taranto pregiudicherebbe, per chiunque, ArcelorMittal compresa, la capacità di gestire l’impianto nel mentre si attua il Piano ambientale richiesto dal governo italiano”. Il cosiddetto scudo legale, l’immunità penale per l’acquirente, è da sempre considerata un elemento essenziale per il mantenimento degli accordi presi. Solo l’emanazione del “decreto imprese” aveva evitato che il recesso potesse arrivare già alla fine delle ferie estive. Il commento di Francesco Lenzi sul sito La Voce.

Il buio nel cielo di Taranto, gli indiani vanno via dall'Italia

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Non confondiamo Ilva con Alitalia

Alitalia, Ilva, Mediobanca: tre icone del capitalismo italiano in prima linea in questi giorni. Per molti, le loro vicende sono il simbolo della decadenza italiana odierna. In realtà, nel caso di Mediobanca non c’è alcuna decadenza apparente; negli altri due è una decadenza che viene da molto lontano. Ma non intendo dare l’ennesima opinione non richiesta e non informata sui piani industriali di queste tre aziende.

Mi limito a offrire alcuni spunti di riflessione.

1) C’è un liberismo ideologico che è indifferente al risvolto umano delle crisi aziendali: non per una malvagità intrinseca dei suoi esponenti, ma per una precisa scelta metodologica. Ed anche, alcune volte, per comodità: un’azienda va male?

Lasciamola fallire, senza bisogno di informarci sui dettagli. È un approccio sbagliato, e un liberismo che, almeno in Italia, si condanna all’irrilevanza.

La disoccupazione e la perdita di lavoro sono tragedie immani, che hanno risvolti economici e spesso relazionali tragici su intere famiglie. Ma proprio per questo andare all’estremo opposto e salvare tutto e tutti è altrettanto sbagliato.

Purtroppo, la realtà spesso ci impone delle scelte dolorose, perché per salvare un posto di lavoro in un’azienda con grande esposizione mediatica rischiamo di distruggerne due in piccole aziende di cui nessuno parla, o di condannare tre giovani a una disoccupazione permanente. Non c’è un algoritmo preciso che guidi questa scelta: ci sono aspetti economici, umani e anche, inutile negarlo, politici.

È una questione di realismo e di ragionevolezza.

In base a questi criteri i casi di Ilva e Alitalia sono molto diversi. Per l’Ilva non c’è un modo ragionevole e realistico di evitare un intervento dello Stato, che si decida di chiuderla o di continuare. Il caso di Alitalia invece supera abbondantemente qualsiasi ragionevole test di irragionevolezza. Alitalia ha avuto trent’anni per raddrizzarsi; ha avuto aiuti di ogni genere; si sono tentate tutte le soluzioni. Niente ha mai funzionato.

Non si può continuare a scommettere sui miracoli con i soldi del contribuente. Soprattutto perché i soldi del contribuente sono serviti spesso ad aggravare il problema, puntellando le pretese sindacali di categorie già molto ben pagate invece che indurle alla ragione. È venuto il momento di dire: basta.

2) E qui interviene la difesa dell’italianità, che però quasi sempre è puro pregiudizio ideologico, o frutto di cattiva informazione. Una questione di prestigio?

Esattamente il contrario: non c’è nulla di cui vantarsi nell’esibire al mondo un servizio scadente a costi altissimi (comprese le tasse per ripianare le perdite) solo per dipingere i timoni degli aerei di rosso bianco e verde. Una questione di servizi? Se una rotta è profittevole il posto di Alitalia sarà occupato da un’altra compagnia in un nanosecondo; se non lo è, non vedo perché io debba pagare più tasse per permettere a poche persone di volare da Roma a Los Angeles senza scalo. Una questione strategica? Davvero c’è chi crede che Alitalia debba rimanere italiana per spostare le truppe o per convertire gli aerei in bombardieri a lungo raggio in caso di guerra?

3) In altri casi la difesa ad oltranza dell’italianità è frutto di cattiva informazione. Supponiamo che uno straniero voglia impossessarsi di Unicredit. Ha due modi per farlo. Il primo è vendere a sua volta una azienda o un po’ di case o un po’ di titoli di stato stranieri: in questo caso Unicredit diventa straniera ma l’Italia si impossessa di un po’ del resto del mondo. La differenza è solo che la “perdita” di Unicredit fa più notizia.

Il secondo modo è se l’Italia importa dal resto del mondo più di quanto esporta, cioè se ha un disavanzo di partite correnti (al netto di qualche voce minore). In questo caso deve pagare la differenza cedendo agli stranieri dei cespiti patrimoniali: delle case, dei titoli di stato, o appunto, un pezzo di Unicredit. Negli ultimi anni le partite correnti italiani sono però in avanzo, e negli ultimi trenta hanno oscillato tra modesti attivi e modesti passivi.

Poiché non capiscono questo principio di contabilità nazionale, in tanti gridano alla perdita di italianità quando Parmalat viene ceduta ai francesi o Ilva agli indiani o Italo agli americani o Alitalia (forse) ai tedeschi; ma dimenticano che allo stesso tempo Fincantieri acquista Stx e Fiat acquista Chrysler.

Spesso si obietta che gli stranieri sono furbi, e comprano le nostre aziende pregiate a prezzi di realizzo. Nessuno però ha mai spiegato concretamente come Francia e Germania si uniscano in una cospirazione per costringerci a vendere sotto il prezzo “giusto”.

4) Poi c’è il caso più incomprensibile di tutti, un’azienda italiana (Unicredit) che vende azioni di un’altra azienda italiana (Mediobanca) e il M5S presenta una interrogazione sulla tutela degli interessi finanziari italiani. Ci sono solo due modi per razionalizzare un’azione così inspiegabile: una abissale ignoranza, o un pregiudizio medioevale, perché l’amministratore delegato di Unicredit è francese.

Queste due ipotesi, non la perdita di italianità, dovrebbero veramente spaventarci.

Roberto Perotti - la Repubblica  9 novembre 2019

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