Londra, non amata dagli inglesi

Gli inglesi devono essere stanchi. Perché già nel Settecento Samuel Johnson aveva scritto che «chi è stanco di Londra è stanco della vita»: ma adesso sembra proprio che gli abitanti delle isole britanniche si siano disamorati della loro scintillante capitale. Secondo un sondaggio condotto dal Times, Londra è cordialmente detestata un po’ ovunque, dallo Yorkshire alla Scozia fino al Galles. Non che la cosa debba stupire: il divario fra la metropoli e il resto del Paese è ampio e crescente ed è diventato uno dei temi dominati del dibattito politico. «Là fuori ci odiano, ci considerano una massa di intellettuali snob», ha detto lo scrittore Hanif Kureishi in una recente intervista al Corriere. Basti pensare che la maggioranza degli abitanti della città non si definisce «britannico» e tantomeno «inglese», bensì semplicemente «londinese», che è un’identità a parte. E non è un caso che al referendum sulla Brexit la capitale avesse votato compatta per restare nella Ue, solo per vedersi soverchiata dalla «provincia». La Brexit è stata anche un moto di rivolta contro la capitale: perché Londra è un’isola, ma è anche una specie di piovra che risucchia energie e talenti. La città conta da sola il 12 per cento della popolazione britannica e produce ben il 20 per cento del Pil nazionale: ma sembra assorbire tutte le risorse e l’attenzione. Ora il governo di Boris Johnson ha promesso di riequilibrare la situazione e intende lanciare grandi investimenti soprattutto nelle regioni depresse del Nord, quelle che maggiormente hanno sofferto la deindustrializzazione. Ma l’economia britannica è basata all’80 per cento sui servizi, che per forza di cose si concentrano a Londra: la quale continua a effondere il suo fascino, la sua cultura, il suo stile di vita unico. I britannici potranno essere stanchi (anche della vita?), per il resto del mondo Londra continua a essere una calamita irresistibile.

Luigi Ippolito – Corriere della Sera – 8 febbraio 2020

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Io che volevo restare in Europa

Il romanzo "nero" dell'uscita della Gran Bretagna dalla Ue raccontato da uno dei più grandi scrittori inglesi. Tra delusioni e paure, la ragione e il sentimento di un cittadino d'eccezione che credeva ancora in Bruxelles.

È fatta. Un tripudio di accanite negoziazioni da parte di Theresa May e poi, per breve tempo, di Boris Johnson, ha portato a compimento la più insensata e masochistica ambizione mai immaginata nella storia di queste isole. Il resto del mondo, con l’eccezione di Putin e di Trump, ha assistito allo spettacolo attonito e sbigottito. A dicembre la maggioranza degli elettori ha votato per partiti che sostenevano la convocazione di un secondo referendum. Ma quei partiti purtroppo non sono riusciti a fare fronte comune. Dobbiamo smontare le nostre tende, magari al rintocco delle campane della chiesa, e sperare di iniziare una traversata di quindici anni che ci riporti verso una qualche parvenza di dove eravamo ieri, con i nostri molteplici trattati commerciali, la cooperazione in materia di sicurezza, salute e ricerca scientifica e mille altri utili accomodamenti.

L’unica certezza è che ci porremo domande per molto tempo. Lasciamo da parte per un momento le bugie della campagna del leave, l’opacità dei finanziamenti, il coinvolgimento della Russia o l’inefficacia della Commissione elettorale. Parliamo invece della polverina magica. Com’è stato possibile che una questione di così grande rilevanza costituzionale, economica e culturale sia stata decisa da un voto a maggioranza semplice e non attraverso una maggioranza qualificata? Un documento parlamentare (cfr. Briefing 07212 ) all’epoca della legge referendaria, nel 2015, suggeriva la ragione: perché il referendum era puramente consultivo. «Consente all’elettorato di esprimere un’opinione». Come ha fatto «consultivo» a trasformarsi in «vincolante»? Grazie a quella polverina accecante che mani populiste ci hanno gettato negli occhi da destra e da sinistra.

Abbiamo assistito a una sconfortante complicità tra governo e opposizione. Corbyn ha tenuto aperta a Johnson la porta per uscire dall’Europa. È uno di quei casi in cui se continui ad andare a sinistra finisci per incontrare e abbracciare la destra che viene nell’altro senso. Che cosa abbiamo imparato nel nostro accecamento? Che chi non prospera bene nell’assetto corrente non ha nessun valido motivo per votare in favore del suo mantenimento; che il nostro prolungato caos parlamentare è derivato da una domanda sì/no mal posta, per la quale esistevano decine di risposte; che l’ecosistema dell’Ue, evolutosi in tanti anni, ha modellato in profondità la flora del nostro panorama nazionale ed estirpare queste piante sarà un’operazione brutale; che quella che prima veniva chiamata hard Brexit è diventata soft se paragonata alla minaccia di un’uscita senza accordo, che persiste ancora adesso; che a prescindere dal modo in cui usciremo, secondo la stima del governo stesso, l’economia subirà una contrazione; che abbiamo una particolare predisposizione per dividerci aspramente e in tanti modi: giovani contro vecchi, città contro campagne, quelli che si laureano contro quelli che lasciano gli studi presto, Scozia e Irlanda del Nord contro Inghilterra e Galles; che tutti gli accordi commerciali passati, presenti e futuri e tutti i trattati sono un compromesso con la sovranità, come la nostra firma degli Accordi di Parigi o la nostra appartenenza alla Nato, e quindi che «Riprendiamoci il controllo» era la promessa più vuota e cinica di questa triste stagione.

Siamo riusciti a sorprenderci da soli. Appena pochi anni fa, se qualcuno ci avesse chiesto quali fossero i mali della nazione – la disuguaglianza di ricchezza, i problemi del servizio sanitario nazionale, gli squilibri fra Nord e Sud, la criminalità, il terrorismo, l’austerità, la crisi degli alloggi ecc. – la maggior parte di noi non avrebbe mai pensato di includervi l’appartenenza all’Unione Europea. Quanto eravamo felici nel 2012, ancora ebbri del successo delle Olimpiadi di Londra. Non pensavamo a Bruxelles, allora. È stata una zuffa interna al Partito conservatore, come ha detto Guy Verhofstadt, a mettere in moto tutto, una zuffa che andava avanti da decenni. Quando i contendenti ci hanno trascinato dentro e ci hanno intimato di schierarci, abbiamo avuto un tracollo nervoso collettivo; poi un numero sufficiente di persone ha voluto che la sofferenza finisse e si «facesse la Brexit». Obiettivo ripetuto fino alla nausea dal primo ministro, tanto che sembrava quasi scortese chiedere perché.

Nei primi giorni della campagna referendaria avevamo appreso che alla gente comune importava soltanto della questione dell’immigrazione; ma avevamo appreso anche che era stata una decisione del Regno Unito, non dell’Unione Europea, di consentire un’immigrazione senza limiti dai Paesi appena entrati prima che passassero i sette anni previsti; che era stata una scelta del Regno Unito di consentire ai migranti comunitari di rimanere per più di sei mesi anche senza un posto di lavoro; che era stato il Regno Unito a premere con successo per allargare l’Unione a est; che è il Regno Unito, non l’Unione Europea, che lascia che continuino a entrare immigrati extracomunitari (e perché no?), mentre quelli comunitari si riducono. Abbiamo appreso anche che è stato il Regno Unito, non l’Unione Europea, a optare per i nostri passaporti rosso scuro invece di un patriottico blu; anche se, a guardarli, i miei vecchi passaporti sembrano quasi neri.

Ci sono molte cose storicamente ingiuste nello Stato britannico, ma quasi tutte queste ingiustizie non ci derivano dall’Unione Europea. Non è stata Bruxelles a insistere perché trascurassimo le cittadine deindustrializzate delle Midlands e del Nord, o a imporci di lasciar stagnare i salari, di permettere elargizioni multimilionarie ad amministratori delegati d i aziende in fallimento, di dare la precedenza al valore per l’azionista invece che al bene sociale, di affossare il nostro servizio sanitario, la nostra assistenza sociale, i nostri servizi per l’infanzia, di chiudere 600 stazioni di polizia e di lasciar cadere nel degrado le nostre scuole pubbliche.

Il compito dei propagandisti della Brexit, durante il referendum, era persuadere l’elettorato del contrario. Alla consultazione vinsero con il 37 per cento, abbastanza per trasformare il nostro destino collettivo almeno per una generazione. Per spingere un numero sufficiente di persone a pensare che la fonte di tutte le nostre doglianze sia qualche elemento estero ostile, lo stratagemma più vecchio del prontuario populista: come fu Trotzkij per Stalin, come sono gli Stati Uniti per i mullah iraniani e Gülen per Erdogan, così è stata Bruxelles per i brexiters .

Proprietari di hedge fund, plutocrati pronti a donare alla causa, etonians e padroni di giornali si sono spacciati per nemici dell’élite. Altra polverina magica. La tesi che il problema nordirlandese sia stato risolto è una pericolosa finzione. Abbiamo assistito alla caduta in disgrazia dell’argomentazione ragionata. L’impulso verso la Brexit aveva forti elementi di Blut und Boden ("sangue e terra"), con sfumature di nostalgia imperiale. Aneliti inquietanti che fluttuavano ben al di sopra dei meri fatti.

Abbiamo acquisito un gergo. «Articolo 50», «fluidità degli scambi commerciali», «just in time», «backstop » rimbalzano sulle nostre lingue. Abbiamo imparato a rispettare un «confine invisibile». Prima che tutto cominciasse, solo pochissimi conoscevano la differenza tra l’unione doganale e il mercato unico. Tre anni dopo, sono ancora pochi: un sondaggio, lo scorso anno, ha mostrato che molti di noi erano convinti che crashing out (uscire in modo caotico) e rimanere fossero la stessa cosa. Magari.

I leader della Brexit e il capo dell’opposizione hanno sempre avuto una gran fretta di far partire il cronometro dell’articolo 50, i due anni prima dell’uscita dall’Unione. Avevano paura che gli elettori del leave potessero cambiare idea, che quelli che non avevano votato l’ultima volta fossero favorevoli a restare in proporzione di 2 a 1 e che i giovani elettori che si iscrivevano alle liste elettorali fossero in maggioranza europeisti. I generali della Brexit temevano, e a ragione, un secondo referendum. Almeno possiamo tutti concordare sul fatto che saremo un po’ più poveri. Come diceva uno dei miei insegnanti di scuola, se davvero vale la pena fare una cosa, vale la pena farla male. Theresa May non ce la faceva a dire che la Brexit ci avrebbe resi più ricchi. Non diceva nemmeno se avrebbe votato per l’uscita dall’Unione in un secondo referendum. Dobbiamo riconoscerle una certa onestà. Boris Johnson, invece, esponendo la sua visione per il dopo- Brexit di fronte al Parlamento, ha promesso che avrebbe ridotto il divario di ricchezza e opportunità tra il Nord e il Sud del Paese e che avrebbe fatto del Regno Unito un polo all’avanguardia nel campo della tecnologia delle batterie. Ha dimenticato di dire che l’Unione Europea non aveva mai ostacolato nessuno di questi due progetti.

Ridefinire le nostre relazioni commerciali con l’Unione Europea ci terrà (pre)occupati per anni. Quanto alla posizione degli Stati Uniti, provate a farvi una lunga passeggiata nel Midwest americano: andrete avanti per un mese a camminare in mezzo a un deserto di monocoltura, senza vedere neanche un fiore di campo. Per competere, la nostra agricoltura dovrebbe aprire le porte alle iniezioni di ormoni. I nostri coltivatori dovranno dismettere le inefficienti siepi di arbusti, i filari di alberi, i margini di 3 metri fra un campo e l’altro, tutti pezzi da museo. Quando erano impegnati in trattative commerciali con l’Unione Europea, gli Stati Uniti non prendevano neanche in considerazione l’idea di introdurre criteri più stringenti in materia di allevamento, sicurezza alimentare e protezione ambientale, anche se farlo avrebbe consentito loro di avere accesso a mezzo miliardo di consumatori. L’agroindustria statunitense non cambierà i suoi metodi per una nazione di appena 65milioni di abitanti. Se vogliamo un accordo, saremo noi a dover ridurre i nostri parametri.

Probabilmente verremo danneggiati e ridimensionati da questa uscita. In un mondo pericoloso affollato di "uomini forti" sguaiati, l’Unione Europea era la nostra migliore speranza di una comunità di nazioni aperta, tollerante, libera e pacifica. Quelle speranze sono già minacciate dall’avanzata dei movimenti populisti in tutta Europa. Il nostro abbandono indebolirà la resistenza contro questa tendenza xenofoba.

L’insegnamento della nostra storia nazionale negli ultimi secoli è evidente: quando l’Europa continentale è in tumulto, anche noi finiamo per essere trascinati in sanguinosi conflitti. Il nazionalismo raramente è un progetto di pace. E nemmeno si cura di contrastare i cambiamenti climatici: preferisce lasciar bruciare le foreste tropicali e il bush australiano.

Provate a farvi un viaggio in macchina dalla Grecia alla Svezia, dal Portogallo all’Ungheria. Dimenticatevi del passaporto. Troverete un ricco e pullulante ammasso di civiltà, nel cibo, nei modi, nell’architettura, nella lingua, e ogni Stato-nazione profondamente e fieramente diverso dai suoi vicini.

Il tallone di Bruxelles che schiaccia le nazioni non si vede da nessuna parte. Niente a che vedere con la tediosa monotonia commerciale dell’interno degli Stati Uniti. Rievocate tutto quello che avete letto sulle rovine e la disperazione dell’Europa nel 1945 e poi contemplate questo sbalorditivo successo economico, politico e culturale: pace, confini aperti, relativa prosperità e incoraggiamento dei diritti individuali, della tolleranza e della libertà d’espressione. Fino a ieri era il posto dove i nostri figli potevano andare a vivere e lavorare a loro piacimento.

Ora non più, e per il momento la Forza è con il nazionalismo inglese. Il suo campione è l’esecutivo di brexiters capeggiato da Johnson, il cui monumento nei secoli sarà uno speciale tipo di sogghigno sprezzante, perfezionato ai tempi della vecchia Unione Sovietica: sto mentendo, tu sai che sto mentendo e io so che lo sai e non me ne importa un fico secco. Come quando dissero che «la sospensione per cinque settimane dei lavori parlamentari non ha nulla a che vedere con la Brexit». Michael Gove e Jacob Rees-Mogg erano maestri del sorrisetto sprezzante. La molesta sentenza della Corte suprema sull’illegalità di quella sospensione gli brucia ancora, palesemente.

Di recente è stato mandato avanti l’ex ministro dell’Interno Michael Howard a brontolare contro i giudici. Estendere il controllo politico su una magistratura indipendente sarebbe in sintonia con il progetto di Johnson-Cummings. L’ungherese Viktor Orbán indica la via.

I remainers si battono per un tipo di mondo più gentile, ma siamo sempre stati gli erbivori in questo dibattito, con le nostre enormi marce, pacifiche e derise: «Una folla piena d’odio », ha scritto The Sun; «Un’élite», ha scritto The Daily Telegraph. Se sedici milioni di remainers sono un’élite, allora possiamo rallegrarci perché evidentemente la Gran Bretagna è un modello di meritocrazia.

Siamo noi, in realtà, quelli che sono stati lasciati indietro. Per grazia di Corbyn e dei suoi truci luogotenenti, non abbiamo avuto nessuna voce che ci rappresentasse in Parlamento.

Nel suo primo giorno da premier, Theresa May aveva promesso, davanti al numero 10 di Downing Street, che avrebbe governato per tutti noi. Invece ha gettato alle ortiche metà del Paese per placare la sua ala destra. Inizialmente, l’elevazione di Boris Johnson è stata decisa da un elettorato ridottissimo e in là con gli anni, persone che in maggioranza dichiaravano ai sondaggisti che desideravano che la Gran Bretagna fosse governata da Donald Trump e sognavano il ritorno dell’impiccagione. Nello stesso spirito, Johnson ha toccato nuovi abissi di volgarità populista quando ha parlato, lo scorso giugno, di liberare a colpi di forcone il paese dall’incubo dell’Ue. Ha realizzato il suo sogno.

Quanto alle ali estreme, noi non abbiamo accoltellato e sparato a una parlamentare pro-Brexit per la strada; solo raramente è capitato che spedissimo minacce anonime di morte e di stupro come quelle che hanno abbondantemente ricevuto Gina Miller, Anna Soubry e molte parlamentari donne.

Tuttavia, le email antisemite uscite dal Partito laburista sono state una vergogna. E anche la folla minacciosa che urlava slogan derisori davanti alla casa di Rees-Mogg. Ma noi remainers non abbiamo maliziosamente esortato i nostri compatrioti a insorgere contro il risultato di un secondo referendum. Quasi due terzi dell’elettorato non avevano votato per uscire dall’Unione; la maggior parte delle imprese e dei sindacati, del mondo agricolo, del mondo scientifico, del settore finanziario e del mondo dell’arte erano contrari al progetto della Brexit; tre quarti dei parlamentari avevano votato per rimanere. Ma i nostri rappresentanti hanno ignorato l’evidente interesse pubblico e si sono ritirati dietro camarille di partito e «il popolo ha parlato », quella fosca locuzione sovietica, seguita da «facciamo la Brexit», la polverina magica che offusca la mente, che ha accecato la ragione e ristretto le prospettive dei nostri figli.

Ian McEwan - la Repubblica – 3 febbraio 2020

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E Brexit sia! E adesso, Bojo?

  • Pubblicato in Esteri

Chiusa l’incertezza sulla Brexit che si aprì, inaspettata, con le elezioni di due anni fa. Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito uscirà dalla Ue. Peraltro, la chiara vittoria permetterà a Johnson di ignorare le ali più estremiste del suo partito e la stampa eurofoba, sia perché non gli servono più i voti dei brexitisti duri, sia perché questi, a loro volta, non vorranno opporsi a un leader chiaramente popolare con l’elettorato. Il commento di Gianni De Fraja su La Voce.

Johnson da un calcio all'Unione Europea

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