Matri-monium o gay-monium?

 

Il recente Family Day tenutosi a Roma allo scopo di protestare contro i matrimoni fra persone dello stesso sesso e come esplicito monito al progetto di legge sulle unioni civili fra omosessuali attualmente in parlamento fornisce lo spunto per una serie di commenti.

        Intanto, il malcelato l’imbarazzo sia dei partiti che delle gerarchie ecclesiastiche per la spontaneità (leggi: indipendenza e autonomia) della manifestazione mette a nudo il vezzo diffuso di etichettare qualsiasi comportamento, popolare e non, in base a posizioni ideologiche e di parte. I romani se ne sono al contrario saggiamente infischiati, offrendo uno splendido anche se sparuto esempio del come una società civile non abbia bisogno di essere tenuta al guinzaglio né da tutori parrocchiali né da imbonitori di palazzo.

        Commentando il risultato favorevole del referendum irlandese sui matrimoni fra omosessuali, il Segretario di Stato Vaticano lo aveva definito come una “sconfitta cristiana e dell’umanità”. In realtà, come vedremo più avanti, non c’è bisogno di scomodare la religione per mostrare come questo tipo di matrimonio sia contrario a varie cose, inclusi il buon senso e la semantica.

         Il sottosegretario alle riforme, Ivan Scalfarotto, ha invece definito il Family Day come un’inaccettabile manifestazione contro i diritti umani (sic).      

         Quali diritti umani? Questa bella e fascinosa nozione è stata talmente logorata e abusata da tutti e in tutte le situazioni che riesce ormai difficile capire a cosa possa e debba propriamente riferirsi. Non a caso, essa è cugina della famigerata “democrazia”, così monotonamente sbandierata e irreparabilmente e giornalmente disattesa, come mostrano le esilaranti rivelazioni di WikiLeaks riguardo al più che quinquennale spionaggio di ben tre presidenti francesi. Dire quindi che l’epoca in cui viviamo è quella della più subdola e strisciante omologazione e del massimo asservimento mentale che l’umanità abbia mai conosciuto è quasi banale. In confronto, Orwell, Huxley e Zamjatin, autori di romanzi utopico-distopici, scrivevano racconti di fate. Forti del timore delle azioni terroristiche e dei riciclaggi del traffico delle droghe, i governi di mezzo mondo hanno imbastito una gigantesca e capillare rete di spionaggi e schedature di massa, di fronte alla quale i pur rigidi censimenti degli antichi egiziani o romani (famoso quello di Giuseppe del Vangelo di Luca) erano di una generosità e a maglie larghissime.

        Tutto ciò solo per dire che quando si parla con tanta facilità di “diritti umani”, come ha fatto il Sottosegretario alle riforme, è facile cadere nel tranello degli equivoci. 

        Più che negli equivoci si rischia poi di cadere nell’anarchia (eufemismo per spazzatura) concettuale quando, a proposito del nostro argomento, alcuni sedicenti studiosi arzigogolano attorno al cosiddetto “gender” e alle supposte capacità dei singoli di auto-costruire il proprio genere (ovviamente, sessuale), dando così un esempio dei voli non propriamente pindarici a cui può abbandonarsi la fantasia umana.

       Queste e altre simili piacevolezze sono solo una delle tante derive, più che del pensiero debole, della spudoratezza della cosiddetta “libertà di pensiero” - nobile definizione dietro la quale tuttavia si annida una delle tante frodi di cui è vittima la civiltà moderna, in base alla quale tutti chiacchierano senza mai definire con precisione ciò di cui stanno parlando. Ma ritorniamo al nostro argomento.

       Se si guarda una cartina dell’Europa, sembrerebbe quasi preoccupante il fatto che alcuni fra i più evoluti Paesi abbiano liberalizzato i matrimoni gay, mentre altri come l’Italia ancora non lo hanno fatto. Bisognerà davvero preoccuparsi? Anche la funesta Peste Nera del XIV secolo conobbe un’inarrestabile diffusione europea… Avrebbero dovuto per questo considerarla un inarrestabile progresso?  E qui, due osservazioni.

       La prima è che, a parte i Paesi dell’Europa occidentale che guardano l’Atlantico, gli Stati Uniti (dopo la recente decisione della corte suprema), il Sud Africa e il Canada, i matrimoni fra persone dello stesso sesso non sono ammessi in Africa, India, Cina, Asia sud-orientale e Indonesia. Come dire, essi non sono riconosciuti nella stragrande parte del mondo non occidentale-anglosassone. Interessante, comunque, il fatto che anche in un paese anglosassone come l’Australia un recente verdetto della corte costituzionale abbia pronunciato invalidi i matrimoni fra persone dello stesso sesso.

       La seconda osservazione riguarda alcune coincidenze relative a certi Paesi europei difensori dell’estensione dell’istituto matrimoniale ai gay. Sarà un caso che proprio i discendenti dei crudeli pirati scandinavi e del bellicoso Gustavo Vasa siano oggi non solo campioni di pacifismo ma anche di iper-tolleranza sessuale? E’ ancora un caso che anche i discendenti dei feroci pirati frisoni (gli attuali Olandesi), fino a non molti decenni fa gelosi possessori di un immenso e pingue impero  coloniale, siano anch’essi diventati iper-indulgenti? E’ infine un caso che proprio in due paesi come l’Irlanda e la Spagna, tradizionalmente feudi del cattolicesimo più rigido e intransigente, i matrimoni fra gay siano stati approvati a furor di popolo? Questi curiosi cambiamenti di segno sembrano suggerire che le suddette società sono andate, quasi per compensazione, da un estremo all’altro.

         Fatte queste premesse, veniamo ora all’istituto matrimoniale, di cui i gay reclamano con tanta ostinazione l’utilizzo, nonché ai termini con cui esso è espresso. Prendiamo quelli di più antica data, come il latino matrimonium  il greco gámos, da cui derivano pressoché immutati i rispettivi vocaboli moderni. Entrambi rimandano alla procreazione e alla cura della prole piuttosto che agli aspetti sessuali o sentimentali della relazione. Da notare che il termine matrimonium è un composto da matri- e da un suffisso, -monium, allo stesso modo di patrimonio, testimonio, mercimonio, etc. Nel vocabolo latino è rimasta solo la nozione della maternità, spoglia di qualsiasi connotazione fisica, mentre in quello greco i sottostanti e taciti elementi sessuali sono indirettamente ricavabili tramite il moderno verbo gamào (volgare per “copulare”), la cui radice è la stessa di gámos. In entrambe le civiltà il matrimonio come istituzione non aveva nessun tipo di relazione con il sesso o i sentimenti, ma era insomma sostanzialmente mirato al riconoscimento legale della prole ottenuta tramite “l’aratura” del fertile solco femminile. Se molte formule matrimoniali dell’antica Grecia parlano di aratura, le femministe non devono scandalizzarsi: la metafora era quella di un popolo di agricoltori. Vale la pena inoltre di osservare come anche il termine latino maritare (ammogliarsi), da cui poi l’inglese to marry e il francese se marier, incorpora presupposti semantici eterosessuali. Probabilmente derivato da un vecchio termine indo-europeo *mari (giovane donna), il significato originale di “marito” è dunque quello di  “ congiunto stabilmente a una giovane donna”. Naturalmente, almeno per gli antichi Indo-Europei, una “giovane donna”era tale a causa di precise e definite caratteristiche biologico-fisiologiche. Lo psicologismo era ancora di là da venire.

       In ogni caso, quanto la cura e la presenza stessa di uno o più figli siano stati tradizionalmente considerati come la base del rapporto matrimoniale è confermato dai costumi diffusi in varie parti del mondo riguardo alla sua effettiva decorrenza e validità. Per molte popolazioni, infatti, il matrimonio iniziava ad essere riconosciuto come tale e ad avere validità sociale solo dopo la nascita di un figlio o quando si hanno segni di gravidanza. Così, fra gli abitanti della Terra del Fuoco e della Groenlandia orientale esso non veniva considerato definitivo finché la donna non dava alla luce un figlio. Costumi analoghi vigevano anche fra gli Indiani del Paraguay, i Daiacchi del Borneo, gli aborigeni del Queensland australiano, i Badaga dell’India del sud, i Wolof del Senegal, in Congo,  a Zanzibar, in Birmania, etc. E’ poi noto come in molti paesi europei una gravidanza o la nascita di un figlio siano stati considerati fattori che ancora fino a tempi assai recenti conducevano ineluttabilmente al matrimonio.

        Questa millenaria ed ecumenica associazione fra prole e matrimonio, dove la prima è la ragion d’essere e la conditio sine qua non del secondo, costituisce una prova irrefutabile dell’abissale distanza che separa il matrimonio tradizionale dalle unioni fra omosessuali. La pretesa di equiparare queste ultime a un vero e proprio matrimonio costituisce a tutti gli effetti una disinvolta usurpazione verbale, una patetica contraffazione, uno strafalcione semantico e un’incoerenza biologica. A questo punto, i soliti chiacchieroni tireranno fuori dalla cassetta degli attrezzi polemici il consunto grimaldello dell’omofobia… In realtà, oggetto del nostro esercizio non è affatto la figura dell’omosessuale, vecchia come il mondo e di cui non si capiscono al limite le petulanti aspirazioni a mettersi sempre in mostra. Le cronache sono già troppo piene di analoghe monotone litanie – da quella greca a quella americana sui cattivi Russi  fino agli esibizionismi criminal-suicidi dei fondamentalisti islamici - per doverne sopportare anche delle altre.

        Il tema supera le litanie e gli interessi individuali, mentre la definizione d’incoerenza biologica non è stata scelta a caso.

        E’ noto come le coppie omosessuali rivendichino, oltre al poter unirsi legalmente in matrimonio, anche il diritto di poter adottare legalmente dei bambini o addirittura di ottenerli tramite l’inseminazione artificiale. Da che mondo e mondo (e soprattutto “natura”), i cuccioli e i neonati sono stati allattati da una madre e l’inerente rapporto psicologico si è espresso, almeno nel caso degli esseri umani, tramite coerenti espressioni linguistiche, e cioè, “mamma”. Chi chiameranno dunque “mamma” e “papà” gli eventuali figli adottati da coppie omosessuali? Per forza di cose su di essi graverà lo spettro dell’orfano, o di padre o di madre, salvo appunto le già citate “auto-costruzioni del gender, che però non si vede come possano o debbano essere trasmesse e imposte anche a dei bambini che non possono essere immischiati in queste vicende del tutto intime.

       Ovviamente, il discorso non cambia e anzi peggiora nel caso delle inseminazioni artificiali o degli uteri in affitto. Se già quando l’inseminazione è attuata tramite lo sperma del regolare coniuge ci troviamo di fronte a una forzatura biologica, nel caso degli uteri in affitto da parte di coppie gay, essa appare ancor più aberrante. Lo stesso dicasi nel caso di eventuali inseminazioni di uno dei due soggetti di una coppia di lesbiche. Anche in questo caso i saputelli e i saccenti obbietteranno che si tratta in fondo di una delle opportunità del cosiddetto “progresso”, altro termine abusato e stravolto, soprattutto dagli imbecilli, i quali lo usano come i feticci delle popolazioni primitive.

       Si sa che la chirurgia moderna è riuscita a trovare il modo di sostituire e trapiantare organi. L’immaginario cinematografico, a parte quello letterario (vedi Frankenstein) ha reso popolari ulteriori e più audaci scenari d’interventi artificiali sul corpo umano. Basti pensare a Luke Skywalker di Star Wars, la cui mano distrutta viene ricostruita. In RoboCop, un poliziotto dal corpo (ma non dal cervello) irreparabilmente danneggiato da un’esplosione viene trasformato in una sorta di automa tramite sofisticati apparati elettronici. Rimane pur sempre un uomo sostanzialmente meccanico, così come il sinistro Darth Vader, sempre di Star Wars. Ancora più in là si è spinto Luc Besson nel suo Quinto elemento. Lì, tutto il corpo ormai dissolto dell’ammaliante Milla Iovovic viene addirittura geneticamente rifabbricato da una macchina grazie ai pochi brandelli rimasti della sua mano. In fondo, sono le derive moderne dell’uomo macchina di settecentesca memoria e di ambizioni di tipo faustiano.

       Un elemento essenziale accomuna le suddette audacie biologiche: esse mirano solo a ripristinare il funzionamento di strutture e organismi naturali già esistenti. I figli della provetta e ancor più quelli degli uteri in affitto rimandano al contrario a scenari ed evoluzioni del tutto innaturali e ben più inquietanti: la “fabbrica”, la produzione in serie di individui, oggi effettuata tramite un utero umano, ma domani in teoria praticabile tramite uteri artificiali. I progressi tecnologici dell’ultimo secolo rendono tale scenario assai meno irreale di quanto non sembri. Il prevedibile e neanche tanto fantascientifico sviluppo di questo vezzo sarà l’inseminazione spermatica di un utero artificiale dal quale, come in tutti i racconti fantascientifici che si rispettino, emergerà una creatura artificiale o perlomeno frutto d’ingegnerie umane….Passo avanti o salto nel buio? Il buon senso suggerisce la seconda ipotesi.

       A parte eventuali foschi sviluppi di questo tipo, ciò che conta ai fini del nostro argomento è che gli interventi che sembrerebbero dare una parvenza di giustificazione formale alle pretese gay di formare una famiglia tradizionale congrua col senso specifico del termine matrimonio, e cioé, le inseminazioni artificiali e l’affitto di  uteri, si rivelano essere ancora a maggior ragione una frode biologica, una furberia e un inganno.

       La nostra insistenza sulla coerenza e sull’insostituibile ruolo dei corretti attributi non ha niente di formalistico e di pedante. Se credessimo a fenomeni ultra-sensoriali, potremmo anzi immaginare che le rivendicazioni che stiamo commentando facciano agitare nella tomba gli antichi filosofi cinesi della cosiddetta “Scuola dei nomi”, fiorita nell’antica Cina attorno al III e IV secolo a. C.  e che attribuiva una grande importanza al corretto uso dei nomi. Ma già lo stesso Confucio nutriva analoghe preoccupazioni. ”Se le designazioni non sono corrette” – egli diceva – “le parole non possono essere conformi. Se le parole non sono conformi, gli affari dello stato non hanno alcun successo”. Se ognuno riceve la denominazione esatta, non solo sarà rispettato l’ordine domestico ma anche quello dello Stato e della natura, assicurando dunque un benefico equilibrio fra mondo umano e ordine naturale. Così, il venerabile saggio cinese.

       Anche se sprovvisti delle stesse sensibilità sociali e politiche di Confucio, i filosofi della Scuola dei nomi tenevano in alto onore la chiarezza e precisione espressive, al punto che uno di essi, Kung-sun Lung, è rimasto famoso per alcuni suoi paradossi logici, il più noto dei quali suona così: “Un cavallo bianco non è un cavallo”.

      Non vi sono motivi di dubitare che, con gli stessi criteri, egli avrebbe sostenuto (o magari affidato il troppo facile esercizio dialettico a un suo allievo) che “un matrimonio gay non è un matrimonio”. Coerentemente con le stesse esigenze di correttezza espressiva, inoltre, se avesse conosciuto il latino e l’esistenza del suffisso sopra menzionato, è assai probabile che egli avrebbe ritenuto appropriato parlare di gay-monium, istituzione al momento non prevista, ma che potrebbe essere facilmente fondata, si spera, senza offendere nessuno.

       Ma quanti oggi nell’Occidente “civilizzato” condividerebbero le sue predilezioni?

Antonello Catani, Atene, 27 giugno 2015

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