Dati, sanità e Silicon Valley. Le decisioni che il governo deve prendere su Immuni

Mentre il dibattito su Immuni, la app scelta dal governo per rintracciare i contagiati da coronavirus, si avvitava in questi giorni attorno a ipotesi e dichiarazioni implausibili – per esempio la possibilità infelice che chi non avesse scaricato la app avrebbe subìto restrizioni di movimento: avanzata senza fondamento, molto discussa e poi smentita – non si è parlato abbastanza di alcune decisioni strategiche che il governo deve prendere per consentire al progetto di andare avanti. Alcune di queste questioni sono già in discussione, altre invece non sono in agenda, almeno per il momento, e questo rischia di rallentare l’adozione della app. La prima decisione è: dove vanno i dati degli italiani che saranno raccolti da Immuni? Ora, prima di far partire isterie capiamo quali dati saranno raccolti: saranno pochi e anonimi, perché il sistema, a meno che il governo non decida di fare cambiamenti radicali, è in gran parte decentralizzato. Significa che il bluetooth raccoglie informazioni su chi vi è passato vicino sotto forma di codici alfanumerici, e questi codici rimangono sempre sul vostro telefono. L’unica eccezione è se fate il tampone e risultate positivi. A quel punto – questa è l’ipotesi – un operatore sanitario vi fornisce un codice di sblocco per caricare sul server l’elenco reso anonimo delle persone a cui siete stati vicino. Ma dove sarà questo server? Chi lo gestirà? Le ipotesi allo studio in questo momento sono due.

La prima ipotesi è di usare un sistema cloud commerciale, quelli forniti dalle grandi aziende tecnologiche, che sono sicuri, rodati e garantiscono performance elevate. Ma, appunto, sono sistemi cloud che appartengono ad aziende private spesso non italiane. La seconda ipotesi, che a quanto risulta al Foglio è caldeggiata dal ministero dell’Interno, è quella di usare un’infrastruttura nazionale. Non è ancora chiaro, allo stato attuale del dibattito, se per il ministero è sufficiente che i sistemi cloud risiedano fisicamente in Italia oppure se sarà necessario ospitare i dati di Immuni su server gestiti dallo stato. In quest’ultimo caso, secondo fonti del Foglio, è probabile che il lancio del progetto risulterebbe rallentato.

La seconda decisione riguarda l’integrazione con i progetti di tracciamento dei contatti lanciati da Apple e Google. L’integrazione di Immuni con i sistemi dei due giganti, gli unici che possono garantire che il tracciamento dei contatti raggiungerà abbastanza persone, è tecnicamente possibile. Per usare i loro servizi, Apple e Google richiedono alcuni requisiti di decentralizzazione e anonimizzazione dei dati, e Immuni li può garantire, a patto però che il governo non si metta di mezzo, chiedendo che il progetto sia modificato per esempio mediante una centralizzazione del sistema.

C’è anche una terza questione strategica, forse la più complessa: a quanto risulta al Foglio, il ministero della Salute non ha ancora preso posizione su alcuni temi fondamentali che riguardano lo sviluppo dell’app. L’intervento del ministero è importante. Avete presente l’operatore sanitario che prima vi fa il tampone e poi fa in modo che voi carichiate l’elenco anonimo delle persone a cui siete stati vicino? Ecco, di operatori sanitari così, medici e infermieri, ne servono probabilmente migliaia, che devono essere formati e a cui deve essere fornita una tecnologia (forse una app riservata soltanto a loro, forse qualcosa di più semplice) per abilitare il caricamento dei dati. Poi serviranno call center preparati ai quali indirizzare le domande dei cittadini che si trovano una notifica che dice loro che sono stati vicini a un contagiato, e molto altro. Insomma, uno sforzo organizzativo immane. Il ministero della Salute ha fin troppe cose a cui badare, ma su questo dossier ancora non ha preso una decisione. E poi, ovviamente, servono i tamponi e i test. La comunità degli esperti ha ancora molti dubbi sul fatto che il tracciamento digitale dei contatti sia davvero efficace, le prove sono scarne e gli studi pochi. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: senza i tamponi non serve davvero a niente.

Eugenio Cau – Il Foglio – 22 aprile 2020

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Perché il caso della Germania nella gestione del virus non è un caso

  • Pubblicato in Esteri

Pensare alla riapertura. Per settimane, nel corso di questa crisi da Covid-19, ci siamo interrogati sull’eccezione della Germania. Mentre in Italia (e poi in Spagna, in Francia, nel Regno Unito, e potremmo andare avanti) i reparti di terapia intensiva si saturavano e i tassi di letalità superavano il 10 per cento, in Germania il numero dei contagiati manteneva la curva usuale, ma i morti erano molti meno e la crisi sembrava più contenuta. Con 128.208 casi confermati, ieri in Germania si è arrivati a 3.043 morti in totale, con un tasso di letalità poco superiore al 2 per cento. In Francia i casi sono poco di più (136.779), ma i morti sono quasi cinque volte tanto (14.967 ). Per settimane abbiamo pensato che il caso tedesco fosse appunto un caso. Che la Germania avesse avuto fortuna, o che fosse indietro con i tempi, e che presto la curva dei decessi si sarebbe adeguata alle altre, purtroppo. A qualche mese dall’inizio della pandemia, e con un po’ di dati a disposizione, possiamo dire che il caso tedesco non è un caso. La soluzione del mistero è al tempo stesso complessa e semplice: la Germania ha eseguito meglio degli altri paesi europei i piani pandemici raccomandati dall’Oms.

Partiamo dai due elementi più famosi, i posti letto in terapia intensiva e i tamponi. Sui primi la Germania è stata fortunata per davvero. Il sistema sanitario tedesco, con moltissimi posti letto e tanti piccoli ospedali disseminati per il territorio, era considerato un modello di inefficienza. Il Financial Times ha scritto che soltanto un anno fa uno studio della Bertelsmann Foundation raccomandava di portare i 1.400 ospedali tedeschi a meno di 600. Ma davanti al coronavirus, questa sanità iper-diffusa ha fatto la differenza. Lo stesso vale per i posti letto in terapia intensiva: prima della crisi c’erano 33,9 posti per 100 mila persone, contro i 9,7 della Spagna e gli 8,6 dell’Italia (dati Ocse via FT). Il governo è intervenuto per tempo, e ha portato i suoi posti in terapia intensiva da 28 mila a 40 mila in poche settimane. I respiratori sono passati da 20 mila a 30 mila. Il sistema sanitario non è andato in crisi, almeno per ora, e ha potuto accogliere anche pazienti con sintomi più lievi, per evitare che si aggravassero. Sulla questione tamponi il vantaggio è stato il tempismo: i laboratori tedeschi avevano sviluppato un test per il coronavirus già a metà gennaio, e avevano iniziato fin da subito ad accumulare scorte. Quando il virus è arrivato, erano pronti. Come si può leggere in un articolo pubblicato ieri da BuzzFeed, la progressione della capacità di testing è importante: all’inizio di marzo la Germania era in grado di fare 7.115 test a settimana, il 2 aprile erano 116.655 al giorno, e i laboratori che se ne occupano sono più di 250. Testare i sospetti positivi significa anche controllare il contagio. Secondo Reuters, quando i primi casi tedeschi si sono verificati a gennaio in un’azienda bavarese, gli investigatori sono riusciti a ricostruire con una certa affidabilità come il paziente numero 4 avesse contagiato il paziente 5 passandogli la saliera in mensa. Il tutto senza usare una app di sorveglianza, che pure è in fase di sviluppo. Il tempismo è stato buono anche nell’approvvigionamento di materiale sanitario, gestito centralmente a partire da febbraio. Le mascherine scarseggiano anche in Germania, ma sono state abbastanza da consentire una donazione di un milione all’Italia. La Germania ha anche accolto nei suoi ospedali una cinquantina di pazienti Covid italiani. Alcune delle misure prese dal governo tedesco sono state facilitate da fattori preesistenti, come la struttura del sistema sanitario e la forte industria farmaceutica. Ma altre sono dovute al fatto che il governo di Berlino era meglio preparato all’arrivo di una pandemia. Il piano pandemico della Germania depositato all’Oms risale al 2016, è uno dei più recenti (quello dell’Italia è del 2007), ed è stato in buona parte attuato. Non solo: nel 2013 il Robert Koch Institut aveva presentato al Bundestag un piano specifico per una pandemia da coronavirus, che citava i rischi per gli anziani e il distanziamento sociale. Ci sono state polemiche perché quel piano non fu preso sul serio. Ma almeno ce l’avevano, loro. Ora il governo Merkel progetta date per la riapertura graduale.

Eugenio Cau  –Il Foglio – 14 aprile 2020

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Meglio che niente

In America lo chiamano “silver bullet”, il proiettile d’argento che uccide il vampiro o qualunque altro mostro e che risolve tutti i problemi con un colpo solo. Davanti alla crisi da coronavirus siamo tutti disperatamente alla ricerca di un silver bullet, e anche se sappiamo che ce ne sarà soltanto uno (il vaccino, sempre che sia efficace) e che ci vorrà ancora molto tempo per ottenerlo, assistiamo a ondate di eccitazione mediatica per questa o quella soluzione. Ma senza vaccino per ora possiamo accontentarci soltanto di soluzioni parziali, e purtroppo fragili. Vediamo che la Germania ha cominciato a preparare gran quantità di test sierologici per capire chi ha immunità contro il coronavirus e chi no, e speriamo che grazie ai test sarà possibile ottenere un “patentino d’immunità” per tornare alla vita normale. Ma purtroppo i test sierologici sono molto imprecisi, almeno per ora, come ha ricordato qualche giorno fa in conferenza stampa Giovanni Rezza dell’Istituto superiore di sanità: “Finora le caratteristiche dei test sierologici non sono del tutto soddisfacenti, l’affidabilità è ben lungi dal 100 per cento”, ha detto Rezza. Qualche giorno fa all’ospedale San Matteo di Pavia hanno provato diversi kit di test sierologici su un piccolo gruppo di persone, e uno di questi kit aveva un tasso di falsi negativi dell’82 per cento. E non cominciamo nemmeno a parlare del fatto che in Cina e Corea del sud decine di pazienti guariti dal Covid sono stati trovati di nuovo positivi. Questo significa che il governo tedesco sta sbagliando tutto con i test sierologici? No, e gli esperti tedeschi sono ben consapevoli che i test possono essere fallaci, ma ci troviamo in un mondo di soluzioni fragili in cui molti esperti stanno adottando un approccio che si potrebbe riassumere con: “Meglio che niente”, e infatti ancora ieri Franco Locatelli del Consiglio superiore di sanità ha ricordato che anche in Italia sono in corso studi sui sierologici che saranno completati nelle prossime settimane. Lo stesso approccio vale con la tecnologia. Siamo abituati a pensare alla tecnologia come a un “silver bullet”. Trattiamo Google come un oracolo, gli imprenditori tech come profeti, e per giorni abbiamo parlato del fatto che una app per rintracciare i contagi ci avrebbe salvato dal coronavirus. Ma una app del genere, per avere una qualche efficacia, dovrebbe essere adottata almeno dal 60 per cento degli italiani come ha detto Antonello Soro, garante italiano per la privacy, che ne ha parlato un paio di giorni fa alla Camera. Sono 36 milioni di persone. Secondo Agcom, Facebook in Italia ha 35 milioni di utenti, e non tutti hanno scaricato la app di Facebook: fatevi due conti. E dunque la app non serve? Serve, e anche molto, ma non è il “silver bullet”, e soprattutto non è un procedimento automatico. Se anche riuscissimo a far installare una app di tracciamento del contagio al 60 per cento degli italiani, ci sarebbe ancora un sacco di lavoro da fare. I due progetti che attualmente sono al vaglio del governo, uno sviluppato dall’azienda tech Bending Spoons e dal Centro medico Santagostino e un altro che si chiama Covid Community Alert, sono entrambi a “bassa manutenzione”, nel senso che si limitano a notificare gli utenti del fatto che sono stati accanto a un malato. (Per facilitare le operazioni, Google e Apple hanno annunciato che metteranno a disposizione dei governi protocolli comuni e sicuri per il contact tracing). Ma gli esempi asiatici di contenimento tecnologico del coronavirus, sia di contact tracing sia di controllo dei quarantenati, mostrano che ogni singola soluzione richiede moltissimo lavoro e presenta risultati che deludono chi spera nel proiettile d’argento. Quello è il vaccino. Per tutto il resto c’è la strategia del “meglio che niente”.

Eugenio Cau – Il Foglio – 11 aprile 2020

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