La sicurezza dipende dai cittadini

L'attacco della pandemia esalta la vulnerabilità del fronte interno dei nostri Paesi, impone di ridisegnare in fretta la difesa collettiva e trasforma la responsabilità personale dei cittadini nell'elemento cardine della sicurezza nazionale.
La vulnerabilità del fronte interno è il tema che accomuna le maggiori crisi di sicurezza che abbiamo attraversato nei primi 20 anni del XXI secolo: con l'attacco dell'11 settembre 2001 contro New York e Washington il terrorismo trasforma ogni civile in un obiettivo; con la pirateria cyber gli hacker si impossessano dei dati personali di milioni di persone e aziende in centinaia di Paesi; con le interferenze digitali dal 2016 attori stranieri diffondono fake news per dirottare la vita politica in Europa e Nordamerica. E con Covid-19 il fronte interno subisce il colpo più duro perché gran parte della popolazione del Pianeta è obbligata a limitare i movimenti dopo l'attacco di un nemico invisibile. In ognuna di queste crisi gli Stati nazionali hanno dimostrato una crescente vulnerabilità, trovandosi obbligati a chiedere la collaborazione dei cittadini per garantire la sicurezza collettiva: contro il terrorismo accettando nuove modalità di viaggiare sugli aerei come anche segnalando alle forze dell'ordine borse incustodite e comportamenti insoliti; contro i cyberattacchi dotandosi di protezioni elettroniche in casa o sul lavoro.
Contro le interferenze digitali straniere facendo leva sui propri anticorpi per non cadere nella trappola della disinformazione. Ma la pandemia spinge alle estreme conseguenze tale necessità di cooperazione da parte dei singoli con le autorità perché la sconfitta del virus passa attraverso qualcosa di più drastico: chiudersi in casa, limitare i contatti con il prossimo, lavorare a distanza, non poter incontrare i propri anziani. Ciò significa che il cittadino è precipitato al centro del sistema di sicurezza nazionale e che la protezione collettiva ha come elemento irrinunciabile la responsabilità personale dei singoli individui. Se i cittadini non collaborano - per qualsivoglia motivo - è l'intera comunità nazionalità a essere messa a rischio. Il motivo è davanti ai nostri occhi: in attesa del vaccino e in assenza di una terapia di comprovata efficacia medica l'unica vera arma che lo Stato ha per contenere il virus-killer è la chiusura della vita pubblica. E la sfida al contagio non è uno sprint bensì una maratona ovvero un impegno prolungato nel tempo in attesa che la scienza ci fornisca gli strumenti per sconfiggere il nostro nemico, impedendogli anche pericolosi colpi di coda e ritorni aggressivi come quelli che sta subendo la stessa Cina Popolare che pensava di averlo definitivamente battuto.
Ecco perché le immagini scattate nelle ultime 48 ore che ritraggono un numero significativo di connazionali affollare luoghi pubblici dalla Liguria al Veneto, dal Lazio al Piemonte, dalla Sicilia alla Campania sono il ritratto di quanto più dobbiamo temere: il rifiuto, la resistenza dei cittadini a partecipare alla lotta contro il contagio. In ultima istanza, la sicurezza nazionale nel XXI secolo si sta dimostrando una questione di responsabilità personale: lo Stato, il governo, i titolari della protezione, possono decidere strategie, tattiche e metodi da applicare ma per avere successo hanno bisogno che i singoli le facciano proprie e ne siano protagonisti. Perché lo scontro con il nemico non avviene più sulla trincea di un lontano campo di battaglia dove i protagonisti sono soldati e blindati bensì dentro le nostre strade, i nostri condomini e le nostre case.
Ma non è tutto perché la necessaria partecipazione degli individui alla sicurezza collettiva si può ottenere in diverse maniere, sulla base dei valori e delle leggi dei singoli Stati: per i regimi autoritari è più facile e rapido riscuotere obbedienza assoluta mentre per le democrazie è imperativo riuscirci rispettando lo Stato di diritto. E ciò significa che per i cittadini di un Paese libero la responsabilità è maggiore.

Maurizio Molinari – La Stampa – 5 aprile 2020

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