Pa'

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Pa’ era Pasolini per i borgatari di Roma, una figura amica a cui chiedere  la comparsa in qualche film da lui diretto e che  si invitava a tirare un calcio a pallone nel campetto in periferia. Lo spettacolo in scena ieri sera al Teatro Del Monaco a Treviso, con la regia di Tullio Giordana portava lo stesso nome. Era una biografia in versi tratti dai testi del poeta di Casarsa. Erano pezzi simbolicamente strappati dai fogli delle sue poesie che  riportavano alla luce brani dell’esistenza  dello scrittore e regista,  un intellettuale  per antonomasia anticonformista e  uno dei più influenti del nostro Novecento.  

La sua poesia  recitata dalla voce dell’attore Luigi Lo Cascio, le cui tonalità e trasparenze hanno interpretato l’animo dello scrittore friulano, cadenzavano la vicenda biografica di Pasolini attraverso luci ed ombre.  Il regista Giordana ha scritto: “Io sono stato uno dei contemporanei di quei ragazzi che lo chiamavano Pa’. Fra i grandi maestri a cui guardava, quali Sciascia, Calvino, Bobbio, Moravia e Calvino, Pasolini era per lui il preferito perché univa all’attenzione al quotidiano una particolare passione e imprevedibilità nel trattarlo. E anche la sua poesia conteneva gli stessi stimoli e provocazioni.

La scenografia opera di Giovanni Carluccio ha disegnato gli spazi attraverso segni sintetici, adoperando  oggetti della quotidianità, in grado di contenere nella loro immagine un messaggio essenziale, sintetico come la  poesia. Il prato verde, racconta Carlucci, il declivio vuole rappresentare un ameno paesaggio collinare immerso nella natura … come poteva essere il Friuli della prima giovinezza dello scrittore. La scena con cui si apre lo spettacolo è un paesaggio dell’infanzia poi contaminato dall’immondizia che invece affollava le periferie che tanto attraevano il poeta, come quella romana dove l’archeologia conviveva con la spazzatura.”

All’inizio del tempo dello spettacolo e della vita del poeta, comincia la narrazione in cui Lo Cascio-Pasolini esprime, attraverso parole in versi, il dualismo che caratterizza il conflitto presente in lui tra Purezza e Peccato. Un binomio che ha un’origine edipica. L’innocenza equivale all’infanzia e all’amore puro per la madre, mentre alla maturità corrisponde il peccato e il senso di colpevolezza per l’amore esclusivo ad essa riservato.

Dolore e stupore  nel ricordo del fratello morto in guerra: quel ragazzo giovane che vediamo comparire sulla scena imbracciando un fucile e a torso nudo. Tanti perché si affollano con tumulto. Essi vorrebbero chiedere le ragioni di scelte imponderabili … non comprensibili, spesso dettate dal Caso.  E le domande che riguardano più strettamente le vicende personali si intrecciano alle delusioni di Pier Paolo Pasolini per i nuovi  scenari del dopoguerra e sulla società in cui vive. Egli è  uomo capace di mostrare la nudità che svela l’anima. Ingenuo e barbarico si confondono nel suo universo, grottesco e autentico forse finiscono per sovrapporsi.

Nella sua poesia lo scrittore e regista è sempre vicino al popolo, ai margini, alle periferie e il  suo linguaggio  cerca la verità, si avvicina al parlato ed è mosso dalla volontà di conoscenza. Il rapporto con la propria omosessualità è stato spesso al centro del suo personaggio. La lezione più grande che abbiamo ereditato da Pasolini è la necessità di saper comunicare per essere veramente compresi.

Egli ha scritto: “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi”. Questa frase scandita più volte nel corso dello spettacolo, percepita nelle sue sfumature e meditata nel suo significato profondo, ha avvolto in una “nuvola di mistero”, il tema dell’incomunicabilità.

Patrizia Lazzarin, 5 febbraio 2024

 

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A Treviso il Museo Nazionale Collezione Salce

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Una pagina di storia strappata dalla furia del tempo e degli uomini ritorna a far parte del voluminoso palinsesto di immagini della città di Treviso, che nei suoi palazzi antichi, piazze, vie e canali d’acqua racchiude, come in una teca, la propria bellezza che narra ed intreccia la vita dei suoi abitanti di ieri e di oggi. Si stanno infatti concludendo i lavori di restauro della chiesa di Santa Margherita, affacciata su via Reggimento Italia Libera, a pochi passi dall’ansa del fiume Sile.  Opera attesa già dagli anni Cinquanta del Novecento è un grande edificio  appartenuto all’ordine degli Eremitani, di cui la prima pietra di fondazione risale al Medioevo. Era l’anno 1282 quando il Consiglio dei Trecento che reggeva la città ne autorizzò la costruzione. All’aula grande e semplice, secondo l’abitudine degli Ordini Mendicanti, vennero aggiunte in seguito cappelle, altari e suppellettili. L’interno venne completamente affrescato. Intorno alla metà del Trecento il pittore Tomaso da Modena copri le pareti dell’abside con le Storie di Sant’Orsola, suddividendo la narrazione in riquadri appaiati su tre registri sovrapposti. Il martirio della giovane  Orsola, delle sue undicimila compagne e del Papa nella città di Colonia, per decisione del principe unno che pretendeva di sposarla, era raccontato in uno spazio doppio per dimensioni, nella parte inferiore della parete destra. Il passato è d’obbligo perché  il ciclo di dipinti, salvato per fortuna al degrado della chiesa avvenuto a  seguito soprattutto del decreto napoleonico del 1810 che destinava i beni di monasteri e conventi allo Stato, era stato scoperto nel 1882-83, sotto uno strato d’intonaco dall’abate Luigi Bailo che lo aveva strappato e trasportato su telai lignei. Oggi possiamo vederlo nel Museo di Santa Caterina a Treviso. Non è stato possibile riportare  fisicamente gli affreschi nell’antica chiesa che verrà inaugurata alla fine dei lavori, il 4 dicembre, con la presenza del Ministro dei Beni  e delle Attività Culturali, Dario  Franceschini, ma come ha spiegato l’architetto della Direzione Regionale dei Musei Veneti, Chiara Matteazzi, le pareti, dove un tempo si svolgeva la  narrazione sacra si riempiranno come allora delle storie di Sant’Orsola, grazie ad un sistema di proiezione in 3D. Il desiderio di far rivivere le superfici murarie e di sentirci quindi come quegli spettatori che  quasi settecento anni fa  potevano godere lo spettacolo degli affreschi alimenta il tempo dell’attesa che ci rimane fino a dicembre. L’imponente edificio che è lungo quasi cinquanta metri, se si comprende la zona absidale, ed è largo internamente poco più di quattordici, si avvia a divenire in maniera ufficiale, con l’inaugurazione di fine anno, una delle sedi, forse la più ambita per le sue potenzialità, del Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso, che rappresenta la più importante collezione italiana di affiches. I pezzi  in esso conservati sono oggi circa cinquantamila. Fra pochissimo tempo essi troveranno la loro sede nel caveau tecnologico realizzato all’interno della chiesa di Santa Margherita, costruito  con metodi che garantiscono contro l’incendio e i danni derivanti da terremoti. Saranno posizionati in grandi cassettoni e  saranno visibili su richiesta e previo appuntamento. Un codice a barre sui manifesti leggibile da un personal computer, sempre nel caveau, permetterà una facile selezione e la vista dei cartelloni pubblicitari. Nel 2011 il Ministero dei Beni Culturali aveva deciso di far rimanere la collezione Salce a Treviso dove era nata ed aveva destinato due edifici di proprietà demaniale a tale scopo. Il palazzo vicino alla Chiesa di San Gaetano, in via Carlo Alberto, dopo il restauro era stato il primo ad essere aperto nel 2017 ed è stato fino alla prossima inaugurazione nell’ex chiesa di Santa Margherita,  anche la sede espositiva del Museo. I lavori di sistemazione per i due spazi hanno richiesto un impegno complessivo di spesa di 7 milioni di euro finanziati dal Mibact e  da un contributo della Regione del Veneto. Grandi lavori di restauro che hanno interessato in particolare tutta la copertura della Chiesa di Santa Margherita e la costruzione di nuovi spazi sopraelevati adibiti ad esposizione per un totale di superficie ora disponibile  di 800 mq. Essi permetteranno alla città di Treviso di poter disporre di ulteriori luoghi  per mostre, conferenze ed incontri. È un evento quello che si annuncia significativo per la città ma non solo,  e non poteva quindi mancare un’occasione che ne sottolineasse il significato. Sempre ai primi di dicembre viene aperta al pubblico nelle due sedi del Museo Nazionale Collezione  Salce, in via Carlo e in via Reggimento Italia Libera, a cui si aggiunge il  Museo di Santa Caterina, la rassegna dedicata a  Renato Casaro, trevigiano doc come amano definirlo i suoi concittadini, quello che è considerato l’ultimo dei grandi  cartellonisti, cioè uno di quegli artisti che sapevano cogliere l’anima di un film e trasferirla nel disegno che diventava il testimonial dell’opera cinematografica. Egli firmò infatti opere di Sergio Leone, film come Amadeus e l’Ultimo Imperatore, capolavori senza tempo del cinema, da Cinecittà ad Hollywood.

Patrizia Lazzarin, 12 ottobre 2020

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Natura in posa

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Il suono e il significato della parola fiamminga Stilleven, ossia vita silenziosa, concentra il valore indicato nel titolo della mostra Natura in posa che si è aperta il trenta novembre nel Museo di Santa Caterina, promossa dalla Città di Treviso  e da Civita Tre Venezie in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna e  con il contributo della Banca Intesa Sanpaolo.  Quadri di fiori che sembrano riempire lo spazio con i loro profumi, interni di case popolari, mercati ricolmi di merci, trofei di caccia, vanitas come memento mori e le stagioni dell’anno, con il loro bagaglio  di valori simbolici ed allegorici, si snodano nelle sale del museo recandoci un racconto per immagini. Nella storia dell’arte la rappresentazione di oggetti inanimati o vivi, ma estrapolati dal loro contesto naturale,  intorno al Seicento acquisisce una sua dignità,  propria in precedenza solamente della pittura di storia e del ritratto. La nascita della scienza moderna che veniva accompagnata dall’illustrazione di repertori di botanica, di zoologia e di mineralogia attribuisce un diverso significato a questi temi e soggetti. In Italia essi sono definiti in linea generale come Natura morta, attribuendogli  così una sfumatura negativa e malinconica. Non è un’azione semplice districarsi fra le reti di una maglia di convinzioni solidificate per  osservare con meraviglia il colore lucente e la bellezza  di forme racchiuse in  fiori colorati e in vasellame e cristalleria che ci restituiscono la levigatezza e la trasparenza delle materie di cui sono composti. Naturale diventa invece intendere i messaggi celati nella violenza delle scene di caccia o nei simboli della fugacità del tempo dell’uomo. La tradizione nordica in particolare fiamminga è stata maestra e le peregrinazioni di quegli artisti in Italia per il consueto viaggio di formazione, sicuramente fecero da apripista per introdurre questo genere nella nostra penisola. Nella natura morta compare  un plusvalore e come ha spiegato una delle curatrici, Francesca Del Torre, assieme a Gerlinde Gruber e Sabine Pènot, della sezione antica della mostra: essa rende immortale ciò che è caduco. Il dipinto Il mazzo di fiori in un vaso blu in porcellana del pittore Jan Brueghel il Vecchio, con tutte quelle varietà di fiori che sicuramente non crescono contemporaneamente in ogni stagione dell’anno, restituisce il fascino dell’impossibile, di una bellezza cercata e desiderata. Quel quadro  diventato  icona della rassegna  riempie molti spazi di Treviso e anche il suo aeroporto, come ha voluto con emozione raccontare l’assessore ai Beni Culturali e Turismo, Lavinia Colonna Preti che assieme al sindaco Mario Conte hanno indicato il valore di questa mostra, la prima della loro programmazione culturale che ha come finalità quella di portare i grandi artisti di fine Cinquecento a Treviso. Quei chicchi d’uva gialla, rossa e nera nella coppa d’argento e sul tavolo nel dipinto Natura morta con frutta di un seguace dell’artista Joris van Son che sembrano sbalzare dall’immagine dipinta e  rigirare come bilie fra le dita di una mano spiegano l’acribia della tessitura pittorica nordica attenta, da lunga tradizione  ai particolari, ai dettagli e alle varietà delle materie. Vediamo tavole imbandite che mostrano qui il primato olandese nel commercio internazionale di frutti esotici e porcellane, in grado di raggiungere mercati lontani. Cibo e oggetti che diventano monumentali e  che traggono l’idea originaria da Pieter Claesz e Willem Claesz Heda con le loro stoviglie di gusto monocromatico e scintillante. Alimenti che diventano i protagonisti della scena come nella sezione moderna della mostra Natura in posa  dedicata alla fotografia di grandi maestri  e curata dal direttore della Casa dei Tre Oci di Venezia, Denis Curti. Trash food e oggetti kitsch di Martin Parr ci spiegano con un tocco d’ironia  l’evoluzione di una società globalizzata. La produzione di David La Chapelle con vasi di fiori dai colori brillanti coperti da cellophane, realizzati da lui nell’ultimo decennio, entra in relazione diretta con le opere fiamminghe: con quel Vaso di fiori con l’assedio di Gravelinga di Jan Van Den Hecke  o con  il Mazzo di fiori di Ambrosius Bosschaert il Vecchio che mostra  uno scarabeo, una mosca  euna farfalla. La minaccia della fine della bellezza è garantita  dal cellophane che per contrasto protegge in LaChapelle mentre mantiene la sua forza distruttiva nei fiamminghi attraverso la  guerra in lontananza o  gli insetti alla base del quadro. Nella rassegna, nelle prime sale, le opere di Francesco da Ponte detto Francesco da Bassano: le Stagioni e la Scena di mercato offrono un’occasione per porre sulla scena delle vere e proprie nature morte, brani di storia degli uomini e del loro lavoro. Esse segnano lo spartiacque per un nuovo ruolo della natura in posa che diventa pian piano la protagonista del quadro. Altri suggerimenti e pensieri ci offrono le nature morte con strumenti musicali di  Evaristo Baschenis, considerato il fondatore di questo genere nel Seicento in Italia,  e anche quelle di Bartolomeo Bettera. In entrambi un drappo sembra alludere a una famosa gara dell’antichità fra Parrasio e Zeusi ingannato quest’ultimo dalla verosimiglianza della tenda. La mostra che si realizza anche grazie al prestito di opere di musei e fondazioni nazionali chiuderà il 31 maggio 2020. Il catalogo è stato curato da Marsilio Editori.

Patrizia Lazzarin, 1 dicembre 2019

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