Taddeo di Bartolo, pittore senese fra i grandi del Trecento

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L’immaginario religioso medievale è racchiuso, si condensa quasi, nelle tavole di legno dipinte con  immagini divine e di santi: i polittici in cui  viene narrata  la storia sacra. Questo accade  in modo esemplare,  quando sono di  notevoli dimensioni, come in quello realizzato  nel 1403 da  Taddeo di Bartolo, il pittore senese che solo per dimenticanza della critica ottocentesca, non era stato ancora annoverato fra le figure più significative del gotico senese.  Il polittico era  destinato  all’altar maggiore di San Francesco al Prato, la maggior chiesa francescana e  la più importante fondazione dell’ordine, dopo Assisi, in Umbria. La prima rassegna  monografica dedicata a Taddeo di Bartolo si è riaperta in questi giorni, dopo la chiusura  solamente un  giorno dopo l’inaugurazione, per la pandemia del coronavirus, in uno dei luoghi simbolo dell’arte: la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, come ha precisato il suo direttore Marco Pierini, e sarà visitabile  fino al 30 agosto. Essa mette nella giusta luce il significato dell’opera dell’artista e fa rientrare a buon  diritto  Taddeo di Bartolo  tra le fila della celebre generazione di pittori senesi del primo Trecento: Duccio da Boninsegna, Simone Martini e i fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti, come ha scritto la curatrice della mostra, Gail E. Solberg, nel catalogo della rassegna edito da Silvana Editoriale. In un ambiente, all’interno della mostra, che reinventa una consueta aula delle chiese francescane è possibile ammirare questo grande polittico, di metri 4.50 per oltre 4.50 m., tornato finalmente, per quest’occasione insieme.  Un’opera d’ingegneria, dove la carpenteria di legno che si costruisce intorno ad un’idea del sacro, si  apre e si chiude e  attraverso il colore, gli smalti e le superfici dorate, traduce epifanie divine che raccontano la fede. La storia delle dispersioni di ante e predelle che costituivano polittici, dittici  e trittici   è infinita e tutti noi sappiamo, che ogni volta che diventa possibile  rivedere  unite insieme, a distanza addirittura di seicento o settecento anni, queste creazioni  dell’ingegno umano, sembra di assistere ad un miracolo. Le tavole infatti ci  incantano non solo per la loro bellezza, ma anche perché  ci fanno sentire vicina la cultura di un tempo lontano, quasi mitico nella nostra mente. Ci vediamo intenti a  riaggiustare un filo di una narrazione e a riprendere il senso di un discorso iniziato e interrotto in una stagione  in cui dipingere aveva anche una funzione didattica: istruire  chi non sapeva leggere e vedere concretamente spiegati miracoli e misteri. Ai tredici pezzi conservati nel museo di Perugia si sono aggiunte le sette tavole della predella con le storie di San Francesco  provenienti dal Landesmuseum di Hannover in Germania  e dal Kasteel Huis Berg a s’-Heerenberg  nei Paesi Bassi  e il piccolo San Sebastiano del Museo di Capodimonte a Napoli, che probabilmente decorava uno dei piloni della carpenteria. L’incanto del pennello di Taddeo di Bartolo e delle sue atmosfere si dispiegano nelle cento opere visibili nelle sale della mostra  che illustrano la sua parabola artistica dagli anni ottanta del Trecento al 1421-1422,  grazie ai  prestiti  di prestigiosi musei internazionali come il Musée des Beux-Arts di Nancy e il Szépmuvészeti Múzeum di Budapest, e con la decisiva partecipazione di istituti museali italiani. Taddeo di Bartolo era nato intorno al 1362 a Siena, nel quartiere popolare di San Salvatore ma apparteneva ad una famiglia che godeva di una certa agiatezza che gli aveva permesso di realizzare i suoi sogni diventando così pittore. Intorno al 1400, all’età di circa quarant’anni, era già un artista affermato. In mostra è visibile, seppure grazie ad ricostruzione digitale, il polittico Collegali del 1389, la sua  prima opera firmata e datata. Di esso abbiamo un segno tangibile nelle due cuspidi provenienti dalla Norvegia. Negli anni Novanta del Trecento egli cominciò a viaggiare e dopo tappe  fra Firenze e Lucca, intorno il 1390 si stabilì a Pisa. Qui ebbe  molti committenti come testimoniano il numero  delle pale presenti riunite nell’esposizione, anche se non tutte. Mancano ad esempio le due che lo resero famoso,  del 1395, che possiamo ammirare comunque in ricostruzione digitale. Ritornano invece due Madonne che si ricongiungono, dopo due secoli, ai santi laterali delle pale.  Dopo il  ritorno nella città natale, a Siena, Taddeo di Bartolo vinse appalti  che gli aggiudicarono ampli cicli di affreschi  nell’abside del Duomo e nella cappella e anticappella dei priori del Palazzo Pubblico. Una ricostruzione dei murali di questo palazzo in 3D permette anche di osservare e studiare i restauri e le indagini diagnostiche effettuate su di essi, in vista della mostra. Nella Natività del 1404 e nell’Annunciazione del 1409, che possiamo vedere nel quarto spazio  della rassegna che complessivamente si divide in sette sezioni, l’artista si era ispirato ai solenni racconti mariani che vedevano la Madre di Cristo come protagonista. Lo ha fatto  allo stesso modo che possiamo osservare nei trittici diventati icona della città di Siena, di Simone Martini, dei Lorenzetti e di Bartolomeo Bulgarini. Accanto a queste creazioni la Pentecoste del 1403 per Perugia è destinata anch’essa a  sorprendere gli spettatori. Il pittore senese non smise mai d’inventare e noi possiamo assistere lungo il percorso della mostra a questi cambiamenti di carattere tecnico ed espressivo, in particolare nelle Madonne, da quella di San Miniato del 1390 a quella di Perugia del 1403 e poi di Volterra del 1411. Il cambio di stile diventa un nuovo linguaggio che nel Quattrocento altri avrebbero cercato d’imparare e d’interpretare per dare nuove forme al senso del divino.

Patrizia Lazzarin, 4 giugno 2020

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